Ma oggi so anche altro e quindi mi trovo già a ritrattare le posizioni di due soli giorni fa.
Mi trovo a dovermi imbarazzare a leggere le mie stesse parole trovandole ottuse.
Quello che ho scoperto è quanto sia riduttivo e semplicistico individuare negli attacchi terroristici ma anche più semplicemente nelle violenze dei musulmani un attacco di matrice religiosa.
Non dobbiamo rischiare di dimenticare le motivazioni politiche, sociali, economiche, l’umiliazione e il desiderio di rivincita. La frustrazione ha bisogno di un quadro capace di legittimarla, e trova legittimazionenella religione tradizionale trasformata in ideologia di guerra.
Salendo nella gerarchia terroristica, troviamo l’espediente della religione come strumentalizzazione operata da quelli che perseguono altri obiettivi ma preferiscono mascherarli così. Da quei leader che si spacciano per profeti, per capirci.
E poi c’è una cosa che spesso non si ha chiara: l’islam è una religione, l’islamismo è un partito politico. Sono due cose ben diverse.
Non sono le culture o le religioni a entrare in guerra, ma le entità politiche. E’ proprio per il fatto che si tratti di politica e diplomazia, che i conflitti possono risolversi con negoziati.
Ma intanto comprenderli può essere il primo passo di autocritica e di elaborazione di metodi diversi per affrontare il problema
. Diversi da quelli evidentemente inefficaci adoperati fino ad ora.Senza dover dire “Io odio gli integralisti islamici”. Senza dover rispondere uccidendo chi non c’entra affatto.
Il fatto sconvolgente è che tutti i terroristi del mondo credono di essere dei controterroristi, e quindi di rispondere ad un terrore e ad ingiustizie subiti in precedenza.
Ho la sensazione che né io né le persone a cui mi sto rivolgendo stiano al governo e decidano il bello e il cattivo tempo a livello internazionale. Però anche noi contribuiamo a una sorta di guerra.
Proprio noi, che apparteniamo a questa splendida società democratica, abbiamo le colpe della frustrazione delle minoranze immigrate, ad esempio. Viviamo nella società della provocazione, che spinge al consumismo e lascia ai margini una buona parte della popolazione. Viviamo in una società in cui ci indigniamo della violenza di alcuni immigrati considerandola quasi un fattore di DNA.
Quando può capitare che un bambino immigrato viva in una famiglia in cui il padre è sempre fuori a lavorare, o è umiliato, o non gode di prestigio. E in cui anche la madre è sempre a lavorare, magari senza essere anche lei veramente integrata. Un bambino che fin dai primi anni di scuola può essere escluso. Che, raggiunta l’età per lavorare, non riesce a farsi assumere: non ha particolari competenze, il suo aspetto fisico non è giudicato rassicurante.
Persone che crescono sentendosi escluse dalla società possono diventare violente e distruggere il quadro sociale in cui abitano. Forse li saremmo diventati anche noi.
O forse perché hanno avuto la fortuna di essere stati accolti diversamente.
Dovremmo riuscire a guardare dall’esterno il nostro atteggiamento e autocriticarci.
Nessuno di noi è totalmente soddisfatto delle proprie condizioni di vita. Anzi, talvolta ci sembra che peggiorino. E si tenta di cercare un colpevole facile da identificare, responsabile di questo degrado.
Il populismo di sinistra risponde: è colpa dei ricchi.
Il populismo di destra, che non difende una classe sociale ma una nazione, risponde: è colpa degli stranieri.
Sradicarla forse è il nostro piccolo contributo a evitare le violenze.Dobbiamo soltanto smettere di umiliare, e alle risposte alla nostra umiliazione smettere di rispondere con altra umiliazione.
Iniziamo a smettere noi. Magari un giorno anche gli americani e in generale gli occidentali, a livello di politica internazionale, smetteranno di rispondere infliggendo nuove umiliazioni a chi ha risposto a un’umiliazione.