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Tradimenti e mercato del lavoro

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Il seguente articolo si pone come prosieguo di quanto esposto in termini assertori, dunque non argomentativi, nel precedente “Economia e tradimenti: Peronella e il liberismo”. La tesi di fondo è sostanzialmente quella per cui l’Italia, come già d’altra parte la Germania di Schröder in precedenza e non solo, stia progressivamente adottando politiche, sopratutto nel mercato del lavoro, volte a favorire un’economia di tipo liberista che è destinata a creare drammatici processi di pauperizzazione, ingiustizia sociale e involuzione autoritaria dei processi democratici. Contemporaneamente, si è affermato che tutto questo avviene sotto il bombardamento mediatico dei sorrisi di una classe dirigente la quale, ben lungi dal rappresentare gli ideali sotto la cui bandiera si ripara, sceglie deliberatamente di assecondare i diktat di un’ideologia, quella liberista, che progressivamente smantella il welfare state.

Addentrandoci nei dettagli delle riforme che testimoniano questo tipo di processi, si cercherà, ora, di concentrarsi, al fine di essere il più possibile esaustivi, su un tema in particolare, riservandoci di trattare gli altri in successive pubblicazioni.

Si comincerà, quindi, con il tema del lavoro, dal momento che è di pochi giorni fa la dichiarazione del ministro Poletti sull’imminente approvazione dei decreti attuativi della legge sul mercato del lavoro. Prendendo spunto da una brillante indagine sulla neo-lingua del governo Renzi, pubblicata su MicroMega da Domenico Tambasco, si potrebbe chiedere che cosa ci sia dietro la patina anglosassone, dal sapore thatcheriano o reaganiano, del Jobs Act e della flexicurity. Con il D.L. 34 del 20 marzo 2014 convertito in Legge n. 78/2014, meglio noto come Decreto Poletti, sono stati liberalizzati i contratti a tempo determinato fino a una durata di tre anni. Potrebbe essere tradotto così: lavorare per tre anni a paghe bassissime senza garanzie e poi rimanere senza lavoro.

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E perché le paghe dovrebbero essere basse? Non potrebbe essere che siano stati pensati trattamenti particolari per i lavoratori che vengono assunti a tempo determinato? No, non è così. Infatti, con la “semplificazione delle disposizioni in materia di contratto di lavoro a termine”, disposta dall’art. 1 del D.L. 34/2014, i rapporti di lavoro vengono deregolamentati e viene data la possibilità di stipulare contratti “a scadenza”, senza la benché minima giustificazione causale, fino a tre anni appunto e con ingenti defiscalizzazioni solo per gli imprenditori che scelgono di assumere precari. Insomma, l’apoteosi della precarietà si accompagna ad un lauto favore che il governo fa alle aziende.

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A rimetterci, oltre ai lavoratori, sono da un lato la collettività stessa, che paga per i pochi, dall’altro – incredibile ma vero – lo Stato stesso che si vede privare di entrate che potrebbe destinare a forme di ammortizzatori sociali, in grado di favorire il reinserimento dei lavoratori licenziati. Non è un caso che la decontribuzione prevista in caso di stipula di contratti di lavoro a tempo indeterminato non abbia prodotto gli effetti sperati. Più che di vere e proprie assunzioni agevolate con aumenti occupazionali si tratta di stabilizzazioni: l’80% dei datori di lavoro ha, infatti, beneficiato degli sconti contributivi per stabilizzare lavoratori con contratto a progetto, leggasi precarietà o sfruttamento.

Il trionfo della precarietà è stato accompagnato poi dalla maschera ingannatrice delle “tutele crescenti”. A rigore di logica si potrebbe pensare che si tratti di forme di tutela che lo stato garantisce al lavoratore col crescere degli anni di lavoro. Niente di più falso. Si assiste infatti alla cancellazione della tutela reintegratoria in materia di licenziamento (articolo 18), sostituita, quasi integralmente, da un modesto indennizzo monetario, “crescente” con l’anzianità di servizio. Nessuna crescita, ma solo il definitivo ingresso della precarietà anche nell’area che, fino a qualche giorno prima, era ancora tutelata dalla garanzia della reintegra.

Il processo di mercificazione del lavoratore giunge poi al suo culmine con l’art. 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, che stravolge integralmente il testo dell’art. 2103 c.c.. Si tratta della possibilità, data al datore di lavoro, di demansionare un dipendente, ossia di assegnargli un compito demansionato e declassificante e addirittura inferiormente retribuito. Si tratta di una vera e propria umiliazione della figura del lavoratore che, posto sotto la costante minaccia del demansionamento, sarà costretto ad accettare tacitamente ogni forma di pressione esercitata dal datore di lavoro.

Alla luce di quanto esposto, assistiamo quindi a un processo di mercificazione del lavoro e del lavoratore. Le misure di tutela che sono proprie di ogni stato a vocazione socialdemocratica, cedono infatti il passo allo stato minimo, che non interferisce nella giustizia distributiva del mercato. I contratti di impiego, che non specificano qualità e numero degli incarichi cui il lavoratore dovrà dedicarsi, e i contratti flessibili, come ideale normativo per abbattere i costi di produzione, sono quindi la testimonianza auto evidente di un sistema che si avvicina drammaticamente molto più ai principi di Hicks e Kaldor, piuttosto che a quelli di Keynes.

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Francesco Corti

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Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

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