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“Un’immodesta proposta” sul futuro della poesia: Montale e Brodskij

12 minuti di lettura

Qualche anno fa – era il 2003 – tra le tracce presentate per la prima prova di maturità, il Ministero della Pubblica Istruzione propose di analizzare la seguente questione: «È ancora possibile la poesia nella società delle comunicazioni di massa?». Le sorti della poesia venivano fatte rientrare nell’ambito “socio-economico” sottacendo, forse, un senso più profondo. Diventare maturi, avere dunque accesso all’età adulta e farsi strada nel mondo, non poteva prescindere, per i ragazzi di allora, da una riflessione sociale, economica e forse etica sul destino di questa forma di comunicazione troppo spesso maltrattata, calpestata come fosse cosa secondaria, di poca importanza.

Ritorniamo oggi, in questo 21 di marzo dove si celebra la Giornata Mondiale della Poesia, sul medesimo quesito. Ci interroghiamo sul fine ultimo della poesia e indaghiamo se il senso di un prototipo sia un modo tra i tanti per chiedersi – ancora una volta – quale sia lo scopo della letteratura tutta, dell’arte non rentable, di un prodotto che, come ci insegna Eugenio Montale, sconfina nell’inutile ma che, fino a prova contraria, «non è quasi mai nocivo» e per tale motivo si fa cosa nobile pur nella sua fragilità. La Giornata Mondiale della Poesia cade nel primo giorno di primavera e vien da sorridere pensando che insieme alla Giornata Mondiale della Donna, della Memoria, degli Autistici, dei Profughi, dei Sordi e degli Anziani si inscrive – tristemente – nell’ampia cerchia di quelle minoranze (ma si potrebbe anche dire dimenticanze) di cui il mondo si sente colpevole. Il rimedio è grossolano. Si punta un dito su un giorno a caso del calendario come a voler significare: «ecco: oggi è per dirvi che esistete pure voi».

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Internazionale Magazine Bad Zone, Good Zone

La poesia non gode di buona salute e la dimostrazione sta nelle cifre che non giocano certo a suo favore. Iosif Brodskij, premio Nobel par la letteratura nel 1987, poeta e critico letterario tenne un discorso interessante nel 1991 quando venne incoronato «poeta laureato» dalla Library of Congress di Washington. In una sala zeppa di ammiratori, aspiranti scrittori, uomini di cultura e semplici lettori analizzò lo stato di salute della poesia nel mondo contemporaneo arrivando a concludere che il pubblico di questo genere letterario non abbia mai superato – in tutta la storia dell’umanità – l’1% della popolazione. Né nell’antichità greca, né in quella romana né tantomeno nel «glorioso Rinascimento» si ha mai avuto l’impressione che la poesia trascinasse con sé uno stuolo di fedeli. Non sono mai esistiti, per intenderci, «battaglioni» di lettori appassionati. Un genere dimenticato – inconsiderato – ma che pare essere «l’unica assicurazione disponibile contro la volgarità del cuore umano».

La poesia, sembra dirci Brodskij non è per le grandi masse, non per comunità idolatranti. Non riempie le piazze, non crea code di fan al di fuori delle librerie. Forse il problema sta nella volgarizzazione crescente del mondo, in una perdita di identità che è alimentata dal benessere (ma quale benessere allora, quale confort nelle epoche passate che paiono altrettanto oscure dal punto di vista della fruibilità del genere poetico?). Il benessere del nostro nuovo mondo è per Montale (anche lui premio Nobel e poeta seppur «non laureato») un’utopia sterile che reca in sé «i lividi connotati della disperazione».

La poesia è un’arte solitaria per chi la scrive e per chi la legge: per Brodskij comporta un’ «atomizzazione»: è certamente meno sociale della musica o della pittura, prevede un travaso di sapere autonomo e individuale che poco si confà con le società dell’oggi, terrorizzate dal silenzio e dalla pausa. Se la radio e la televisione costituivano al tempo di Montale il principale antidoto contro la solitudine, che dire di noi uomini dell’epoca 2.0 che d’umano abbiamo perso le fattezze abituati come siamo a vivere in funzione delle nuove protesi: cellulari parlanti, tablet multimediali che a colpi di polpastrello inventano mondi, social network per provare sentimenti? La velocità dei mezzi di comunicazione di massa ci costringe al consumo immediato e dunque anche il poeta si deve adeguare ad un panorama che obbliga alla rapidità, alla concretezza di un clic. Montale lo sapeva, lo prevedeva, quando si diceva che forse sì, avremmo anche potuto urlare poesie nelle piazze e risvegliare la gente, ma l’epoca delle grandi rivoluzioni era già passata nel ‘75 e gli striscioni dei lavoratori, dei precari incatenati ai cancelli, non gridano oggi i versi di Majakovskij, né le fratture «liminali» di Montale, non hanno la violenza scarna delle parole di Robert FrostIl  modo migliore per venirne fuori è sempre buttarsi dentro»), perché ad ascoltare le folle è di pane che abbiamo bisogno, non di versi, non di arte. Ma di futuro.

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L’errore è qui: credere, come hanno creduto i governi, che i poeti fossero da accantonare, da dimenticare, ché a dirigere i paesi ci volessero uomini di legge e non «donnicciole» dalla penna facile. Una società di poeti sarebbe difficile – impossibile? – da governare, perché ogni uomo politico dovrebbe quantomeno degnarsi di «offrire un grado di attenzione» alla voce lirica del proprio popolo-poeta, dovrebbe ascoltare ed essere capace di reggere un confronto diretto, cosa che fino ad oggi, anche in assenza di votanti-letterati, non si è mai verificata.

Di certo, anche dinnanzi all’accusa di vacuità, di poca concretezza, di inutilità, nascerà sempre, su questa terra, un nuovo poeta: i versi si scriveranno e verranno rilegati in edizioni di mala-fattura da vendere ad un altissimo prezzo di copertina. La poesia è il rifugio della casalinga infelice, dello studente con pene di cuore, ma anche del poeta di professione, sia esso laureato come Brodskij o semplice ragioniere che batteva a macchina «con un dito solo» come Montale. La grande poesia, quella che valica le pagine e che non ha bisogno di sponsorizzazioni pubblicitarie, di cartelloni, di stuoli di ragazzine adoranti, può «morire, rinascere, rimorire» pur conservando eternamente il suo statuto di ultima vetta «dell’anima umana». Se è vero, come sosteneva Montale, che la lirica è alla portata di tutti – dopotutto basta aprire un libro per il lettore, avere carta e penna per lo scrittore – è forse giusto concludere la celebrazione della giornata Mondiale della «minoranza» poetica con l’«immodesta proposta» avanzata dai nostri due poeti che è al fine, con ogni probabilità, la proposta di qualsiasi poeta di ogni tempo.

Dutc Uncle The Men Weakness
Dutc Uncle The Men Weakness

Se il fine dell’evoluzione è la bellezza capace di generare verità, se è vero che la verità altro non è  che la fusione di «ciò che è mentale e di ciò che è sensuale», è legittimo credere che l’uomo abbia bisogno di tale bellezza per poter vivere, per potersi dire umano. L’uomo ha bisogno di poesia per evolversi, per differenziarsi, per distanziarsi dall’animale. Può farlo solo attraverso il linguaggio, la semantica e l’eufonia che creano la parola poetica e che fanno della poesia il significato ultimo delle cose.

Finché l’essere umano non imparerà a caricare le proprie frasi di significati profondi al pari dell’uomo di fatica che carica il proprio furgone, finché l’uomo non imparerà a scorgere «un’anima pellegrina» nei lineamenti della persona amata è chiaro che ci condanneremo ad essere soltanto dei sub-linguati, degli esseri dotati di parola ma senza la capacità di discernere. È forse per questo che si dovrebbe abbassare il prezzo dei libri di poesia suggerisce Brodskij, è per questo che le raccolte poetiche dovrebbero essere recapitate a casa di ciascuno ogni mattina, al pari del latte, del pane e dei quotidiani. È lo Stato, ogni Stato che dovrebbe farsi carico della poesia che, come tale, dovrebbe essere venduta nelle farmacie, nei supermercati, nelle edicole. Poesia come rimedio, cura, accompagnamento, risposta muta e insieme partecipe all’isolamento e al dolore. Pratica solitaria che insegna il silenzio e insieme il grido, che dà voce all’uomo attraverso l’uomo. Non è vero, dicono i poeti, che la poesia è difficile. Basta leggerla per capire che «Voi, mie parole, tradite invano il morso/segreto», per comprendere che una società incapace di ascoltare i propri poeti è una società che ha abdicato «al proprio potenziale evolutivo», che non ha speranza e dunque nemmeno futuro.

È questa la lezione del poeta. Non solo consolazione – «Ti dono anche l’avara mia speranza» – non solo possibilità intellettuale e dunque etica ma poesia come gesto di umiltà, come fine antropologico, genetico, «faro linguistico» alla Brodskij o, per concludere con Montale, fiducia cieca nel domani. Procediamo dunque in avanti: se avremo coraggio anche a noi, forse, sarà dato di imbatterci per caso «nel fantasma che» ci «salva».

Images: © Shout

Fonti: Igor Brodskij, Dolore e Ragione, Adelphi, Milano, 1999 ; Eugenio Montale, È ancora possibile la poesia?, 1975

di Ilaria Moretti

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