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"Il ritorno di UIisse", Giorgio De Chirico, olio su tela, cm 59.5x80, 1968. fondazionedechirico.com

Vivere in società per pensare,
pensare per dubitare

9 minuti di lettura

di Nicolas Calò.

"Il ritorno di UIisse", Giorgio De Chirico, olio su tela, cm 59.5x80, 1968. fondazionedechirico.com
“Il ritorno di UIisse”, Giorgio De Chirico, olio su tela, cm 59.5×80, 1968.
fondazionedechirico.com

Orientarsi nello sterminato mare di proposte di oggi appare sempre più complesso e difficoltoso: tutti vogliono proporci qualcosa, la società, attraverso i propri canali preferenziali, i media, genera un flusso continuo di opportunità per il singolo compratore che finisce, purtroppo per lui, invischiato in una ragnatela dialettica di bisogno-soddisfacimento; ciò non fa altro che alimentare esponenzialmente l’orizzonte di attesa del compratore e dell’utente, i quali rimangono affetti da quella bulimia sociale che rende l’uomo un assimilatore compulsivo di idee non proprie, cose che non desidera e occasioni che sarebbe meglio perdere.

Possiamo chiamarla “società del porta a porta”, ma le idee non vengono distribuite al dettaglio, attenzione: esse ormai sono come al discount: veri e propri pacchetti di idee e ideologie che l’individuo mette nel proprio carrello, vuoi perché c’è crisi e quindi la logica del prendi tre e paghi due si adatta anche ad un mercato di convenienza del pensare; vuoi, forse, perché pensare è di per sé un atto complesso, che richiede fatica e sudore. Lo stesso Immanuel Kant era un fiero sostenitore dell’autonomia che gli uomini devono raggiungere nel libero utilizzo della propria ragione; molte persone intellettualmente pigre, contrariamente, adagiano le proprie sinapsi e derogano terzi affinché pensino al proprio posto, rimanendo sempre intellettualmente immaturi.

Errare è umano: la società odierna ha perso di vista questa sacrosanta verità. Il clima competitivo che asfissia sempre di più non solo gli adulti, ma anche i giovanissimi, induce quella malsana idea (che noi rispettiamo, pur criticandola, per non cadere in contraddizione) secondo cui l’atto del discernimento non è utile ma, anzi, controproducente. Appare sempre meglio, quindi, far propri comportamenti magari a noi non congeniti, ma che altri prima di noi hanno testato e dichiarato socialmente efficaci. Questa è la società della tecnica, dell’utile e del concreto pertinente, le scelte vengono eterodirette dalla ragione del successo sociale. C’è, poi, quella persona che decide di non uniformarsi, novello Enea che sa guidare la propria nave in caso di pericolo: certamente la tempesta incombe sempre ed è sempre pericoloso lanciarsi nel mare ignoto e profondissimo con la propria barchetta. Ma qualcuno lo fa. Qualcuno ci lascia anche la pelle, ma tendenzialmente tutti quelli che si cimentano in questa gagliarda impresa posso vantare alla fine di aver varcato le Colonne d’Ercole del pensiero uniformato.

Ergersi a campione del pensiero richiede costanza e sacrificio, dedizione e curiosità; amare la propria intelligenza significa rispettarsi come uomo, sia sul piano privato, affermandosi come individuo che accresce la propria sfera interiore, sia, e questo non è un aspetto trascurabile, sul piano sociale. Diventare persone con una vasta apertura mentale può rivelarsi un’arma vincente per essere socialmente utili, poiché attraverso l’utilizzo del proprio personalissimo pensiero si può affrontare trasversalmente o da prospettive differenti un problema di natura sociale o ambientale, con la finalità di migliorare il posto che si abita e fare del bene al prossimo.

Tante persone che, pensando autonomamente, e  magari senza coesione, o formulando addirittura pensieri in forte contrasto con l’idea di società, finiscono per far del bene alla società stessa, che è un agglomerato indistinto di individui. È un ragionamento paradossale! Sì, è proprio così. Paradossale, è un’idea fortemente controintuitiva, tanto da opporsi all’opinione comune. Al vaglio critico, però, il paradosso, se non è “falsidico”, si dimostra perfettamente valido. Il potere del paradosso, primariamente, è quello di apparire come un’assurdità bella e buona. Nessuno crederebbe mai che un’affermazione paradossale possa rivelarsi esatta: eppure quelli veridici sono accompagnati da dimostrazioni scevre da qualunque errore logico. Pensare paradossalmente può significare riformulare il proprio sistema di valori, creare un taglio netto, ma giustificato,  dall’opinione comune. Significa dubitare, dubitare sempre. Nel dubbio, dubita!

Ogni scontro è momento per imbracciare le armi migliori: chi ne esce vincitore può vantare le cicatrici sul proprio corpo e raccontare come ha domato l’avversario. Nel dibattito intellettuale non avviene proprio così: è molto difficile, soprattutto se non si affrontano argomenti dotati di solidità epistemica, decretare a chi vada l’alloro. Il ragionamento non è dunque  finalizzato alla ricerca di una verità universale, come non è vero che il sapere sia sempre cumulativo. Ragionare è discutere, dibattere, anche cambiare idea: valutare opinioni diverse, magari tutte assiologicamente uguali. La dialettica del ragionamento puro non ha andamento lineare, non ha un punto di arrivo intrinsecamente superiore a tutti i punti precedenti: ha, anzi, un andamento ciclico, una forza rinnovatrice e autorinnovatrice in cui ogni momento del pensiero ha la medesima dignità e lo stesso significato del momento precedente. Ragionare sulle cose non significa dare delle risposte, ma formulare delle domande profonde.

Cosa succede a non pensare? Oltre alla naturale atrofizzazione del cervello, un mancato esercizio costante della nostra corteccia ci rende individui sempre più vulnerabili e manipolabili. Chi non pensa, finisce per perdere la propria potenziale capacità distintiva. Il problema trova il suo fondamento nel fatto che, perdendo quella discretezza che ci rende diversi da tutti gli altri e uguali solo a noi stessi in un determinato cronotopo (perché non si è mai uguali a se stessi per troppo tempo), diveniamo manichini senza volto e senz’anima pronti a seguire qualunque vessillo bianco impugnato da qualche diavolo che desidera farci cadere in qualche malaffare. Senza quell’identità temprata e resa immediatamente dopo metallo fuso diventiamo pedine di persone che utilizzano la propria furbizia per atti immorali, azioni che molte volte sono implicitamente e tacitamente accettate dalla società, ma non spetta forse a noi di cambiare in meglio il luogo che ci accoglie?

In conclusione, è bello ricordare come il desiderio di conoscere e sapere abbia sempre guidato e animato l’uomo, non soltanto imperando nella storia del genere umano, da sempre guidata dal desiderio di inventare oggetti che mitigassero la fatica del lavoro e scoprire terre rigogliose che profumano di spezie e frutti squisiti; il desiderio di scoperta e di apprendimento accompagna, infatti, tutti gli uomini fin dalla più tenera età, dal primo vagito, alle prime parole, sintomatiche del desiderio limpido e fertile di comunicare  e dai primi gattoni tanto goffi quanto teneri, ai primi passi, più intrepidi e sicuri.

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Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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