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Vuole cambiare il Paese, ma nessuno glielo ha chiesto

11 minuti di lettura

Cerimonia della campanella tra Matteo Renzi e Enrico Letta, Roma 22 febbraio 2014. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

di Davide Cassese

Dopo aver rassicurato, per poi silurarlo, con il proverbiale #Enricostaisereno l’ormai moribondo – politicamente parlando – Enrico Letta, presidente del Consiglio che guidò il governo di largh(issim)e intese dopo le elezioni del 2013, sale al Quirinale dall’imperituro Napolitano il quale gli dà le chiavi di Palazzo Chigi conferendogli l’incarico di formare il governo. Diventa presidente del Consiglio dei Ministri presentando un squadra non molto dissimile da quella lettiana. Tra tutti i membri spunta, soave e angelica, una giovane donna di nome Maria Elena, che gestirà i rapporti col Parlamento e avrà giurisdizione sulle riforme. Saranno un t(ri)onfo. L’accecante tailleur blu elettrico farà parlare di sé.

Le prime dichiarazioni del neo – presidente, come tutte quelle che verranno, hanno un unico obiettivo: trasmettere determinazione, suscitare sicurezza, propendere verso l’uccisione del gattopardo della Politica, ormai in agonia, e rottamare una classe dirigente che sta cadendo come intonaco da una parete. Dalla capacità affabulatoria fuori dal comune, con una gestualità quasi da anfitrione e con la battuta sempre pronta, anche nello stile è innovativo: camicia bianca, spesso a mezza manica, simbolo di rottura con la tradizione del politico tutto d’un pezzo dal solito format, pedalate in bicicletta, selfie e #hashtag come se non ci fosse un domani. Dà le pacche sulle spalle ai vigili che provano a fermare l’impeto del fiume in piena della folla che vuole salutarlo, carezza i bambini per strada, espia peccati, becca gli abbracci e i baci delle signore di mezza età che sprizzano giubilo da tutti i pori.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi si fa un selfie con una ragazza mentre si reca alla parata militare ai Fori Imperali per la celebrazione del 68° anniversario della Repubblica Italiana a Roma 2 Giugno 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Insomma, un Presidente del Popolo. C’è un problema: il Popolo, che, come dice la nostra Costituzione, ha la sovranità, non lo hai mai votato. Non è neanche parlamentare. Ma ciò non importa. La stessa Costituzione non lo prevede. L’ingresso in campo di Renzi è giustificato dalla situazione di impasse del nostro paese. Siamo nella palude, e ci serve il nuovo Caronte. Solo lui ci può salvare.

Il programma riformatore è esilarante, ma ancora di più la spregiudicata tempistica con cui vuole realizzarlo: riforma della Costituzione e del Senato e legge elettorale, riforma del Lavoro, poi la Scuola, poi il Fisco, poi la PA – affidata alla ministra Madia, che, ahimè, non si è accorta di esserlo – e, se tutto va bene, un meccanismo di refrigerazione in tutto il pianeta per non far sciogliere i ghiacciai. Scarseggiano provvedimenti sulla lotta alla corruzione, alla mafia e al riciclaggio, che quasi 800 dopo giorni da quando è stato depositato da Grasso viene approvato.

Se dei predecessori bisognava preoccuparsi per ciò che non veniva fatto, visti i progetti di Renzi, bisogna preoccuparsi di quello che viene fatto. Lui ci crede. È renziano. E non solo lui. La stampa lo incensa, i colleghi europei non lo disdegnano, la maggioranza del suo partito lo erge a portento e ad angelo rinnovatore, la minoranza lo boicotta con l’energia di bradipo ubriaco, le opposizioni lo sostengono. Per quanto forte e caparbia sia la sua azione, più passa il tempo e più le categorie toccate dal suo pirotecnico piano di riforme si adirano.

I primi sussulti si iniziano ad avere nei giorni più ribollenti in cui si discuteva del combinato disposto Legge elettorale – riforma della Costituzione. Esimi costituzionalisti – o Professoroni – che tutto un tratto sono diventati gufi di professione, ritengono che la riforma sia pericolosa per la stabilità democratica. Solo nel 2013 la Consulta ha bocciato il porcellum che, tra liste bloccate e premi di maggioranza allucinanti, metteva a rischio la rappresentatività. Questa legge prevede ancora capilista bloccati e un premio sproporzionato al vincitore. Niente di nuovo. Sarà monopolizzato il parlamento.

downloadProteste più accese – visto il tema meno “metafisico” – si hanno nei confronti del Jobs act, ideato dal ministro Poletti, che, in nome della flessibilità nel mondo del lavoro, cancella l’articolo 18 e prevede tutele crescenti per i lavoratori. Sindacati in piazza, bandiere rosse e mobilitazioni nelle città.  Non mancheranno le manganellate che i poveri manifestanti soffriranno in queste dispute, goffamente placate da Maurizio Landini, leader della Fiom. E Alfano tace. Anche la minoranza PD si mobilita, tanto che alcuni disertano la #Leopolda per stare a fianco ai lavoratori. Tanto fervore, tante polemiche, ma il Jobs act è legge. Si cambia verso, ma dove si va? Forse verso una realtà meno stabile che avrà ripercussioni anche sulla pianificazione della vita del lavoratore, che non avendo stabilità potrebbe rinunciare a fare passi importanti, come la costruzione di una famiglia o l’acquisto di una casa tramite un contratto di mutuo. Accettare compromessi significherebbe prostrarsi allo spirito conservatore del sindacati. Non è previsto. Vai, Matteo.

Infatti il prode Matteo non si ferma. Imperterrito va avanti, facendo a sportellate con i rivali. La sua intransigenza è impalpabile. E pensare che solo qualche tempo fa l’intransigenza dei 5 stelle era accostata al Fascismo. Sebbene la sua sfrontatezza non abbia eguali, non sono mancate alcune defaillance: dalla manina che modificò le soglie di punibilità per il falso in bilancio alle paventate mancate coperture sbandierate dalla Ragioneria dello Stato per gli 80 euro. Pinzillacchere.

L’ultima allarmante riforma, che sta suscitando polemiche e mobilitazioni, è quella sulla Scuola. La Buona Scuola. Un provvedimento che, tra le altre cose, conferisce superpoteri al preside. Saranno infatti i dirigenti scolastici a comporre l’organico dei docenti, proponendo l’incarico, triennale, agli insegnanti di ruolo inseriti nelle liste dell’ambito territoriale di riferimento in modo da “valorizzare il curriculum, le esperienze e le competenze professionali”. Per questo esasperante e gravoso ruolo i dirigenti si vedranno anche aumentare lo stipendio. Onore al merito. Il rischio, palese ed evidente anche agli occhi di un bambino, è che i presidi possano scegliere sulla base di altre caratteristiche, diverse da quelle citate.

renzi1Come notava il Professor Stefano Rodotà, uno dei professoroni gufi rosiconi, “l’accentramento del potere aumenterà i conflitti, poiché la Scuola è composta non solo dal Preside ma da un corpo insegnanti, e dagli alunni”.  Un altro punto importante della riforma, poi stralciato, riguardava le donazioni del 5 per mille che si potevano fare alla scuola. Sempre Rodotà faceva notare come il finanziamento della scuola con questo criterio prestasse il fianco a critiche perché le scuole frequentate da figli di famiglie benestanti sarebbero più avvantaggiate rispetto alle scuole che si trovano in luoghi disagiati e frequentate da figli di famiglie più modeste che avrebbero maggiormente bisogno di fondi. “Così aumenterebbero le diseguaglianze. La scuola è il luogo dove l’eguaglianza si impara senza bisogno che qualcuno la insegni “. Dopo questa lezione di civiltà, l’unico modo per rifarsi riguarda il contentino agli insegnati rappresentato da una carta con 500 euro da spendere per l’aggiornamento. 

Riforme e soddisfazione dei cittadini si muovono in funzione inversa. Gli scontenti sono molti e sempre più aumenta, tra la gente, il dissenso verso questo genere di modus operandi. Non basta fare per il gusto di dire che si fa. L’azione, senza il metodo, è miseria. Ci ritroviamo con un partito, il PD, che fu votato non per avere questi risultati ma altri. Ci ritroveremo con un sistema elettorale che produrrà una logica di forte centralizzazione del potere. E questo avrà conseguenze sulla scelta del Capo dello Stato, e su parte di Corte Costituzionale e CSM. Eliminare il Senato – che poi non si elimina – per ridurre i costi – che non si riducono – sarebbe come combattere la povertà uccidendo tutti i poveri. Gli elettori non volevano questo. Saranno puniti coloro che commetteranno ecoreati, certo, ma resteranno impuniti molti condannati per l’operare della prescrizione o per le inefficienze della macchina della giustizia.

Verranno dati bonus bebè e 80 euro, ma ci mancherà una forma di reddito minimo garantito – oculata e ben intavolata – che dia dignità alle persone. Saremo costretti a chiamare “bonus pensioni” ciò che ci spetta di diritto, a chiamare “strumenti di difesa in vista delle potenziali controversie internazionali” dei velivoli prodotti dall’alleato americano – ai piedi del quale ci prostriamo come fedeli ossequiosi – chiamati F-35. Chiameremo flessibilità l’assenza di certezze e tutele, e gufi-rosiconi gli oppositori. Ci ritroveremo, ahinoi, a chiamare Repubblica democratica l’Italia. 

Ma cosa la cosa più stravagante e paradossale è che ci troviamo ad avere un uomo che vuole cambiare l’Italia, senza che nessuno glielo abbia chiesto.

Auguri

Matteo-Renzi-da-solo

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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