di Aurelio Lentini
«D’un tratto, gli Austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile gridò in italiano:
– Basta! Basta!
– Basta! – ripeterono gli altri, dai parapetti.
Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano.
– Basta! Bravi soldati, non fatevi ammazzare così.
Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano».1
Eppure poi si riprese a sparare, e già a lungo avevano sparato i fucili e i cannoni, dall’Isonzo alla Marna, dalle feritoie e dalle buche delle trincee scavate nelle rocce delle montagne, o nella terra morbida delle pianure.
Era il 24 maggio del 1915 quando anche l’Italia decise di entrare nella Guerra, inutile strage. Ma chi fu, davvero, a decidere? Perché in certe decisioni è racchiuso il senso degli anni avvenire. Non decisero certo i soldati, i contadini male armati perfino per gli occhi di Cadorna, quelli che lasciarono le famiglie e che venivano fucilati se imprecavano contro il delirio. Ma chi decise il delirio?
Non c’è un abisso della storia dell’umanità nel quale non siano coinvolti i potenti. E anche in questo caso a spingere per l’entrata in guerra fu una ben precisa classe sociale, che grazie al conflitto si poté arricchire. Ma nel clima di cento anni fa, chi sa dove saremmo stati noi che adesso leggiamo e scriviamo dei drammi della grande guerra.
La prima lezione dovrebbe essere quella di non chiamarla più Grande Guerra nei libri di storia, Grande Delirio o Grande Disastro avrebbe già un certo qual senso. Un non senso superato solo dall’orrore che esso stesso ha contribuito a far germinare, e di fronte al quale nemmeno la Seconda Internazionale, quella dei lavoratori del mondo, riuscì a sopravvivere.
Oggi possiamo scoprirci a riflettere e commemorare, purché non si celebri niente, poiché una ferita talmente profonda da pulsare imperitura nei secoli non va celebrata.
«Un uomo onesto si difende bevendo» scriveva Emilio Lussu in Un anno sull’Altipiano, racchiudendo in quattro parole tutto il non senso che si dispiegava e distruggeva sotto i suoi occhi: unica via la follia, la cieca abnegazione di sé. Unica salvezza contro la pulsione di farla finita l’annebbiamento della mente, unica forma di accettazione il delirio.
«Io mi difendo bevendo. Altrimenti sarei già al manicomio. Contro le scelleratezze del mondo, un uomo onesto si difende bevendo. È da oltre un anno che faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza neppure conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra. […] Se tutti, di comune accordo, lealmente, cessassimo di bere, forse la guerra finirebbe».2
Non può stare nelle pagine di storia la memoria degli uomini della guerra mondiale, nelle anonime enumerazioni di soldati, delle centinaia di morti riassunti nei morti del grande delirio, in una questione di numeri, di strategia, di nomi di generali. La memoria è nella letteratura, nei romanzi, nelle lettere dal fronte, nelle ferite riportate su carta. Nell’alito di vita che pure continua ad animarci accanto al compagno morto già pallido, il cui viso somiglia a quello degli altri, tutti diversi eppure così uguali nella morte.
In quell’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore.
non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.3
Scegliamo dunque cosa ricordare oggi, a cento anni di distanza. Se i giorni sul Carso, con la morte davanti ogni istante, o La Prima Guerra Mondiale, con così tante maiuscole, e l’entrata in guerra dell’Italia, con i dovuti pesi e misure, i forse e i però. In un immenso totem mnemonico che ci appaga un istante, salvo non riuscire a insegnarci assolutamente nulla.
«Compagno, io non ti volevo uccidere. Ma prima tu eri per me solo un’idea. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto, e quanto ci somigliamo. Perdonami compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire…Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico?
Ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi: che a te ha tolto la vita, e a me? La vita anche a me. Te lo prometto compagno. Non dovrà accadere mai più».4
Perché se non insegnò allora di certo questo delirio non insegna agli uomini d’oggi, che a forza di dire “mai più” sembra che i loro animi siano mondati dal perseverare nel peccato, e peccano, peccano di continuo, non contro un Dio, che di dèi è da tempo che non ne sono rimasti, ma contro la loro onestà, perché un uomo onesto contro le scelleratezze del mondo si difende bevendo, ma qui di ubriachi non ce ne sono.
1 Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano.
2 Pag. 29
3 Giuseppe Ungaretti, Veglia.
4 Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale.