cinema anni novanta

L’ultima spiaggia dell’impoliticamente corretto

Dalla newsletter n. 22 - novembre 2022 di Frammenti Rivista

7 minuti di lettura

Treccani definisce “politicamente corretto” un termine che: «[…] rivendica il riconoscimento delle minoranze etniche, di genere ecc. e una maggiore giustizia sociale, anche attraverso un uso più rispettoso del linguaggio» (corsivo nostro). E non è un segreto che la gran parte della narrativa cinematografica, americana in special modo, oggigiorno ha attenuato leggermente i toni rispetto al passato. In particolare lo fa attraverso i dialoghi tra i protagonisti, ma anche tramite lo stesso modo di narrare le storie. Un cambio radicale in questo senso parte dagli inizi del millennio, passando poi dal miracolo Obama fino al trauma Trump. Gli anni Novanta sono così un periodo spartiacque, come in politica anche nel cinema di finzione: un lembo di spazio (a)temporale incredibilmente saturo di possibilità, innervato di strade che, percorse dagli autori, avanzavano in un clima “liberato” e con un’estrema voglia di cinema. La caduta del Muro ha indubbiamente donato un periodo anarchico in cui liberarsi da ogni costrizione e legge, sia sociale che artistica.

Un periodo che lascia il posto a un millennio invece più disincantato, in cui le minoranze hanno trovato una loro rappresentanza nel cinema di colore. Ma, come ogni cosa, questo attivismo è in equilibrio funambolico rischiando di cadere nell’abisso assolutista del politicamente corretto, confondendo il genio con il razzismo, il cinema con il documentario.