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Post-Gallino: fase zero. A che
punto siamo con l’alternativa?

di Redazione
15/11/2015
Politica
3 minuti di lettura

di Aurelio Lentini

La morte di Luciano Gallino, intellettuale necessario, ci mette davanti a una triste evidenza: una classe politica culturale di uomini e donne che hanno a cuore il destino del loro paese e del mondo sta venendo meno. Chi ne prenderà il posto?

Più che una questione anagrafica è una questione ideale; esiste un’ampia gamma di valori, di principi e di idee (giustizia sociale, beni comuni, dignità, eguaglianza, rispetto) che è stata alla base della vita in società di una serie di persone con le rughe, le quali oggi, consce del pericoloso venir meno di quei valori, si battono con spirito e modalità differenti per tenerli vivi.

Ma gli altri?

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Abbiamo avuto un bel dire che scomparso Luciano Gallino – che la sua personale battaglia con la Storia l’ha vinta eternandosi nei suoi libri – non svanisce la sua opera, che le idee non muoiono mai, che la speranza e l’alternativa sono e saranno sempre vive finché resterà anche uno solo a crederci. Eppure dobbiamo aprire gli occhi di fronte al fatto che quella speranza (degli uomini e delle donne con le rughe) aveva dalla sua un pezzo di realtà: a scomparire uno dopo l’altro sono gli ex-partigiani, i figli della resistenza, i protagonisti delle lotte di fabbrica, del conflitto sociale, della lotta per un mondo migliore. Sono quelli che si sono formati in un contesto radicalmente differente rispetto al nostro, dove l’esercizio critico del pensiero non era fattore sterile di studio ma elemento di cultura militante, dove, soprattutto, le speranze oltre a vagheggiarsi si sfioravano.

Noi non possiamo che vagheggiare, che commuoverci sui libri o nei film, che avere il cuore palpitante cantando Fischia il vento. Ma per resistere come loro abbiamo bisogno di qualcosa che non abbiamo.

Di una cosa è il momento di accorgersi: che una parte assolutamente maggioritaria degli intellettuali di sinistra (o progressisti) più brillanti e influenti del nostro paese, negli ultimi anni si è spesa giorno e notte per contrastare la barbarie; che questi uomini e queste donne sempre coraggiosi hanno animato tutti, anche i più raffazzonati tentativi di mettere insieme le forze di una sinistra “di cuore” polverizzata dalla storia con decine di appelli, manifestazioni e tentativi. Dal Manifesto per un Soggetto Politico Nuovo alla Via Maestra per la Costituzione, all’appello de l’Altra Europa con Tsipras e alle manifestazioni e le prese di posizione su quasi tutti i punti focali dello scontro politico e sociale. Eppure questi tentativi, condotti nella maggior parte dei casi con la necessaria umiltà, sono stati vani. Da un lato sono mancati i corpi sociali, è mancata la coesione della società civile che forse si supponeva essere già pronta a sollevarsi una volta indicata la strada, e sono (siamo) mancati i giovani; dall’altro quanto restava della vecchia politica ha dato una prova di sé a dir poco repellente.

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Forse però le responsabilità di tali mancanze non sono univoche ed è stato il linguaggio stesso alla base di queste iniziative a impedire la nascita di sinergie proficue – iniziative costruite cioè in un modo che non aderiva alle contraddizioni che pure si volevano risolvere. Luciano Gallino ha avuto ragione a volersi rivolgere ai nipoti. Ma bisogna capire se tra lui e i suoi nipoti esista ancora un orizzonte di senso condiviso laddove sia possibile entrare in comunicazione. Bisogna capire se i paradigmi di riferimento della ricerca sociologica propri di Gallino, o di Zygmunt Bauman, o di altri intellettuali critici e veritieri, siano ancora gli stessi pilastri sui quali noi poggiamo le nostre vite. E se il discorso sulle forme della politica, sulla precarietà e la società civile possa permettersi di non tener conto (come voce protagonista) di una delle fasce sociali maggiormente coinvolte in questi processi, i giovani.

Bisogna che si faccia uno sforzo di autocoscienza, e si tenti di comprendere se quell’orizzonte sociale a monte e a valle della critica del potere sia ancora un canone di interpretazione (di lettura) e di conflitto (di ricerca delle soluzioni) valido. Altrimenti è inutile fare panegirici di sorta, è inutile raccontarci che le analisi e le soluzioni (inclusive, comunitarie, solidali, “socialiste”, improntate alla giustizia, all’eguaglianza delle persone e dei popoli, alla condivisione, al rispetto e all’autodeterminazione) proposte dalla generazione con le rughe siano veramente pregnanti. Perché sarebbe inutile insistere a sostenere la bontà di opzioni comuni quando i vissuti sono irrimediabilmente individuali ed egoistici. (E dunque ogni soluzione inclusiva e condivisa, “comune” risulta realisticamente non percorribile).

Negli ultimi anni non sono mancate né le analisi, né gli sforzi per tradurre le idee e i principi in realtà: sono mancati i partigiani. E non è possibile pretendere da chi è stato partigiano una volta che lo sia di nuovo a quasi novant’anni.

Bisogna parlare ai nipoti, ma i nipoti devono sapere ascoltare. Devono esigere rispetto ma anche dimostrarlo: altrimenti facciamo da soli. Se la frattura generazionale è tale da aver separato anche gli orizzonti ideali ne si prenda atto e se ne formino altri. Se la coscienza di sé che ha animato uomini e donne di una certa età, non è più in grado di venire a capo, e nemmeno di dialogare proficuamente con le ferite della nostra generazione, è necessario che avvenga una nuova presa di coscienza da parte nostra, altrimenti non potremo che subire.
Ne saremo in grado? È davvero la cosa migliore? La vera scommessa in ogni caso è rinsaldare quelle fratture, mettere insieme analisi e vita, giovani e adulti (e anziani); tornare a essere uniti, perché disuniti financo alla base dei nostri vissuti non verremo a capo di niente; perché quella cosa di cui abbiamo un disperato bisogno ma che non possediamo, forse, è proprio la propensione a pensarci come un noi prima che come un io.

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