Eccentrico, stravagante e sopra le righe, Giuseppe Arcimboldo incarna, esasperandolo, lo spirito del suo tempo, dominato dalle sperimentazioni del Manierismo del tardo Cinquecento, una corrente artistica che porta alle estreme conseguenze le novità introdotte da Michelangelo, a partire dai colori brillanti e antinaturalistici e dalle pose contorte.
Lasciata Milano, dominata dall’oppressivo clima controriformistico, dal 1562 l’Arcimboldo si trasferisce a Vienna dove diventa ritrattista di corte degli Asburgo, presso i quali trova un humus culturale idoneo al suo sperimentalismo. In molte corti europee, infatti, si era si era imposto un gusto collezionistico orientato alla raccolta di bizzarrie e stravaganze, spesso provenienti da luoghi esotici. Tali meraviglie (mirabilia), denominate «naturalia» o «artificialia» a seconda che fossero o meno create dall’ingegno umano, venivano raccolte nelle cosiddette Wunderkammer, vere e proprie camere delle meraviglie, nonché antesignane dei musei moderni.
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In questo contesto culturale l’arte di Arcimboldo fiorisce, dando alla luce straordinari capolavori su committenza del coltissimo Massimiliano II d’Austria, per il quale realizza il Ciclo delle Stagioni e il Ciclo dei 4 elementi, raffiguranti busti di profilo realizzati assemblando ortaggi e frutta di stagione. I celebratissimi ritratti ortofrutticoli, denominati «teste composte» per la loro natura ibrida, a metà strada tra natura morta e ritrattistica, costituiscono una riscrittura radicale del genere ritrattistico, anticipando di ben quattro secoli alcune trovate stilistiche delle Avanguardie di inizio Novecento.
Alla base di tali opere vi è una fortissima curiosità scientifica, botanica e zoologica, come documentato dai numerosi studi preparatori per i dipinti dedicati agli elementi «Terra» e «Acqua», costituiti rispettivamente da un insieme di mammiferi e da oltre 60 pesci.

L’arte di Arcimboldo, a dispetto della sua superficie ludica e bizzarra, costituisce anche una riflessione su una nuova centralità della natura e sul bisogno di ripensare il rapporto tra quest’ultima e l’uomo, invitato a non fermarsi alle apparenze ma a fare un passo indietro, per osservare una visione d’insieme con sguardo scevro di preconcetti.
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Un esempio significativo è rappresentato dalla celebre tela L’ortolano, divertente capriccio artistico che, se ruotata di 180 gradi, si trasforma da ciotola di ortaggi in un volto dall’espressione benevola.

Straordinario mecenate dell’Arcimboldo fu Rodolfo II, primogenito di Massimiliano, salito al trono nel 1576, e responsabile del trasferimento della capitale dell’impero da Vienna a Praga, che nel giro di poco tempo divenne un importante polo culturale nonché epicentro delle nuove tendenze artistiche.
Tra Rodolfo II e Giuseppe Arcimboldo si instaura un legame di profonda stima intellettuale, all’insegna del comune amore per le arti e le scienze naturali, nonché per una certa predilezione per l’occultismo e l’alchimia.
Emblematico di tale rapporto è il ritratto del 1590 di Rodolfo II nei panni di Vertumno, il dio romano delle stagioni, celebrazione della gloria sempiterna dell’imperatore e della casata degli Asburgo.

La capacità di individuare dei volti nelle strambe nature morte di Arcimboldo si basa su un effetto chiamato «illusione pareidolitica», ovvero un meccanismo visivo subcosciente che ci spinge a riconoscere sembianze umane in oggetti inanimati, se opportunamente assemblati.
Secoli dopo lo stesso meccanismo verrà utilizzato dal pittore surrealista Salvador Dali, grande estimatore di giochi ottici e illusionistici. Furono proprio i Surrealisti ad interessarsi all’arte di Arcimboldo, riconosciuto come un precursore del movimento, contribuendo alla riscoperta e rivalutazione dell’artista e sancendone la sempiterna fama dopo alcuni secoli di oblio.
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Numerosi scrittori e intellettuali si sono interessati all’arte dell’Arcimboldo, tra cui il filosofo e saggista Roland Barthes, che definisce l’artista un «rhétoriqueur visivo» per via del parallelismo tra le teste composte e le figure retoriche, come la metafora, l’allegoria e la metonimia. Barthes sottolinea anche l’aspetto più perturbante dell’arte dell’Arcimboldo, ovvero il senso di disagio indotto dalle teste, a causa dell’accumulo di oggetti che spesso finiscono per generare qualcosa di inquietante e perfino mostruoso, come nel quadro Il cuoco, dove le carni arrosto sono assemblate in maniera da comporre il volto ghignante del personaggio rappresentato.

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