Ci eravamo lasciati nella prima parte con quelli che sono gli esempi classici di musei perlopiù scientifici e archeologici. Ma il Novecento, in moltissimi ambiti, è un secolo di profondi cambiamenti e il museo non fa eccezione. È infatti durante il secolo scorso che l’istituzione museale per come la conosciamo oggi prende ufficialmente forma e si impone come realtà fondamentale per la cultura e la sua fruizione, oltre che funzione, pubblica.
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Il cambio modernista
Momento di radicale trasformazione della cultura figurativa europea è quello del Modernismo, ovvero delle avanguardie di inizio Novecento. Nel primo Novecento emerge progressivamente l’idea del museo come oggetto artistico, come gesto espressivo che deve incarnare lo spirito dei tempi, diversi e che rompono con il passato. Quello che gli architetti del linguaggio moderno vogliono proporre è uno spazio ancora una volta adeguato a un’arte di un’epoca radicalmente nuova. L’arte delle avanguardie rompe con gli schemi del passato, dunque anche con il modello del museo classicista, templare. Il nuovo museo arriva talvolta a un grado tale di sperimentalismo, e quindi formalismo, a dispetto delle intenzioni iniziali, da sovrastare i contenuti per cui era stato creato. È come se il museo diventasse, da contenitore, scrigno del passato, il luogo in cui esibire la rivoluzione artistica del presente.
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Il primo e iconico museo di questo periodo è il Musée a croissance illimitée (Museo a crescita illimitata), progettato da Le Corbusier alla fine degli anni ’30. Le prime proposte museali di questo architetto sono della fine degli anni ’20. Il precedente rispetto al prototipo del Museo a crescita illimitata è quello del Mondaneum, cioè l’idea utopica di un grande museo universale che Le Corbusier elabora nel 1928. Si tratta di un anno molto importante, in cui entra nella sua produzione teorica e nelle sue proposte operative l’idea di trasformare la nuova lingua da lui rifondata in una lingua universale valida per tutta l’umanità, libera da tradizioni locali e storiche.
L’architetto pensa a uno spazio sostanzialmente neutro, che usa pochissimi dispositivi architettonici elementari, gli stessi dei suoi progetti degli anni ’20: pilastro di sostegno, parete piana, architettura zenitale. Il museo che propone è muto. L’idea di astrazione passa attraverso elementi geometrici puri – non a caso Le Corbusier è definito come esponente del Purismo –, che per la prima volta in maniera esplicita fanno entrare nella storia del museo universale l’idea del white cube, dello spazio neutrale. Un altro elemento che caratterizza il museo corbuseriano è un principio che governa tutte le sue architetture: la promenade architecturale, ovvero della passeggiata architettonica. Quindi il museo è pensato come percorso, che inizia dal centro della spirale e che poi prosegue, in maniera potenzialmente infinita, anche nel tempo, mano a mano che questa architettura, in virtù anche della sua natura modulare e della sua geometria semplificatissima, si espande. È un museo che potenzialmente potrebbe proseguire all’infinito seguendo i progressi dell’arte nel tempo. Un tempo che diventa tempo della contemporaneità permanente, per cui la storia non c’è più e quell’idea di museo così astratto, fuori dal tempo, può espandersi all’infinito seguendo la spirale da cui è formato.
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Questo è un progetto che ha molta affinità con il nuovo, importantissimo, iconico episodio della storia dei musei novecenteschi: la costruzione del Guggenheim Museum di New York su progetto di Frank Lloyd Wright. Il Guggenheim di New York nasce dalla collezione di Solomon Guggenheim, che si forma nell’arco degli anni ’30. Il museo come istituzione viene aperto nel 1939, nell’East Side di Manhattan, sulla 54esima strada a partire dall’impressionante collezione di artisti dell’avanguardia europea messa insieme da Hilla von Rebay, consulente di Guggenheim, a cui spetta l’idea di rivolgersi all’architetto che più di tutti incarna l’idea di architettura modernista americana. Frank Lloyd Wright è quasi una figura eroica di architetto che, anch’egli programmaticamente, decide di rifondare da un punto di vista degli spazi dell’architettura lo stile di vita americano, il desiderio di modernità di una nazione ancora giovanissima, che si nutre della sua straordinaria potenza industriale, della familiarità con la tecnologia, che invade tutti gli aspetti della vita.
Frank Lloyd Wright inizia a progettare il Guggenheim nel 1943, arrivando poi a concludere il progetto, molto travagliato proprio in ragione del suo sperimentalismo, nel 1959. Anche il Guggenheim, come il Musée a croissance illimitée è un percorso architettonico, uno spazio continuo che coincide con quello di una grande rampa elicoidale, quindi spiraliforme come l’andamento a svastica del progetto corbuseiano. La rampa si sviluppa intorno a un grande spazio centrale, un’interpretazione modernista e ad altissimo tasso tecnologico dello spazio della rotonda. La luce zenitale invade lo spazio, ma ha un ruolo solo sussidiario per quanto riguarda l’esposizione e l’illuminazione delle opere stesse, che per lo più ricevono la luce da degli altri lucernari che accompagnano la spirale che procede dall’alto verso il basso, restringendosi progressivamente. Le opere sono esposte su delle pareti inclinate. Non c’è, all’interno del Guggenheim, una singola superficie ortogonale. Le pareti inclinate rappresentano immediatamente un problema e a un certo punto verranno installati dei dispositivi che servono a contrastare questo fattore, ovvero una serie di perni che offrono un supporto ortogonale alle opere, lasciandole in parte nel vuoto.
Questo è simbolico dell’indifferenza di Frank Lloyd Wright nei confronti delle opere esposte nel proprio museo, per l’oggetto, il manufatto artistico. È un caso di quella tendenza che si osserva in questi nuovi spazi museali novecenteschi a sovrastare le opere, diventare essi stessi manufatti artistici, gesti architettonici eclatanti, che si vogliono imporre anche nel paesaggio urbano e diventare a loro volta icone dello spirito di modernità che incarnano. Gli esterni del Guggenheim servono a tradurre l’idea del meccanismo spiraliforme, anche in una sfida della gravità. Il principio fondamentale che regola il linguaggio neoclassico è quello della verosimiglianza strutturale, tettonica, di un edificio che comunica un rapporto di forza, che produce un effetto di stabilità. Al contrario, nel Guggenheim newyorkese il cono rovesciato dà un effetto fortemente dinamico. Nel colore, nei materiali, nelle volumetrie questa è anche un’architettura che Wright progetta in opposizione alla tradizione architettonica di Manhattan, fatta di isole, isolati distinti da un grande edificio a torre che si assottiglia verso l’alto.
«imageabilité», o un nuovo museo
La tendenza inaugurata da questi musei, prodotti dal momento della storia occidentale che va sotto il nome di Movimento moderno, si sviluppa nel corso del secondo Novecento.
Le sperimentazioni in ambito architettonico museale che prendono il via verso la fine del secolo scorso, eredi dirette di quelle moderniste, possono essere raccolte sotto il termine imageabilité. Coniato negli anni ‘90 da una critica francese, Françoise Choay, è un neologismo traducibile come immaginabilità, ovvero la tendenza dell’architettura del suo tempo a trasformarsi in pura immagine, in icona, cioè a vivere di una vita propria, separata rispetto al contesto in cui l’edificio viene creato, e persino rispetto alla sua materialità, diventando una immagine che ha una circolazione globale e che viene identificata con l’identità stessa dell’istituzione a cui è associata. È questa la funzione primaria che i grandi musei che vengono progettati dagli anni ’80 in avanti, in tutto il mondo, sembrano avere. Alcuni storici dell’architettura li hanno definiti come i supermusei, avveniristiche strutture architettoniche che in una dimostrazione muscolare di risorse e di inventiva architettonica vogliono costantemente proporre, sulla falsariga del primo Novecento, una fortissima idea di modernità.
Un primo esempio di questa idea di museo è il Centre Pompidou, inaugurato nel 1977 e progettato da due giovanissimi architetti, che poi sarebbero diventati i più importanti della storia recente: Renzo Piano e Richard Rogers. Proprio Piano diventerà uno dei più apprezzati architetti di musei, soprattutto negli Stati Uniti.
Quello del Centre Pompidou è un progetto molto radicale, perché si ispira ai movimenti rivoluzionari degli anni ’60, che con progetti utopici – e talvolta distopici – spingono ancora più in là il discorso sull’azzeramento delle lingue delle avanguardie. Il centro è pensato come contenitore neutro, uno scheletro di grandi strutture in acciaio, che metta a disposizione uno spazio capace di trasformarsi costantemente. Sulla falsariga di architetti radicali come gli ArchiGram in Inghilterra o i Radicali italiani, Rogers e Piano spingono il rifiuto di una connotazione linguistica dell’edificio architettonico oltre i limiti del primo Modernismo. Per esempio spostando al di fuori dello spazio architettonico tutta l’impiantistica e i dispositivi di collegamento con l’intenzione di creare vuoto, libero, manipolabile lo spazio interno. Quest’ultimo, tra le molte funzioni pubbliche, ospita le collezioni di arte contemporanea di Parigi. Quello che però finiscono per produrre è un’architettura che spicca in maniera persino violenta rispetto al paesaggio architettonico circostante, e che quindi diventa una potentissima immagine di promozione dell’idea di modernità che lo Stato francese vuole costruire per sé in questo momento storico, quello dei cosiddetti Trente Glorieuses, il trentennio glorioso della grande espansione economica e industriale della Francia del secondo dopoguerra. Non a caso il centro espositivo è intitolato a George Pompidou, uno dei grandi presidenti di quella stagione.
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Altro edificio, probabilmente il più rappresentativo di questa tendenza all’iconicità, tendenza dell’architettura novecentesca a farsi gesto espressionista, è il Guggenheim di Bilbao. Il museo è progettato al principio degli anni ’90 da Frank Gehry, uno dei protagonisti della stagione del Decostruttivismo architettonico, cioè un momento di ritorno all’idea di rottura radicale nei confronti dei linguaggi della tradizione storica, che non a caso si ispira alle avanguardie di inizio Novecento e che interpreta il momento della progettazione come gesto scultoreo. Gehry procede nella progettazione attraverso la pratica manuale del disegno. Attraverso schizzi a mano libera, lasciando fluire l’espressività del gesto in maniera intuitiva, realizza enormi macchine architettoniche di fortissima componente scultorea.
Il Guggenheim di Bilbao ospita soprattutto opere di arte contemporanea europea, più specificamente spagnola, e ancora di più basca. Si trova in un piccolo centro che è la città di Bilbao, rispetto a cui l’edificio giganteggia e spicca come gesto architettonico proiettato al futuro, che decisamente sostituisce nell’immaginario collettivo la collezione medesima. Per anni, dopo l’inaugurazione, il Guggenheim diventa meta di pellegrinaggio per l’edificio in sé, icona architettonica di forza ed eco planetaria. È un edificio pensato, progettato per quel tipo di immagine, per essere architettura rivoluzionaria e che produce al suo interno spazi estremamente connotati dal punto di vista formale e plastico, ben lontani da un’idea di neutralità e apertura rispetto alle possibilità della collezione, che invece era un altro dei principi inseguiti dalla prima architettura museale novecentesca.
Un altro edificio simbolo è la sede del Broad, cioè della collezione di due mecenati californiani e losangelini, Eli e Edythe Broad. Questi hanno raccolto nei decenni una collezione impressionante di arte Pop nordamericana e negli anni ’10 del XXI secolo hanno commissionato allo studio di architettura Diller Scofidio + Renfro la progettazione di un nuovo museo. Ancora una volta, il museo è pensato come immagine iconica e ridotto dai suoi progettisti a essenziali elementi costitutivi. È un tipo di architettura che mostra anch’essa una trattazione complessa della materia nella superficie esterna, progettabile solo tramite sistemi di calcolo consentiti dalla tecnologia dei computer (Architettura Parametrica).
E adesso?
Quelli presentati sono solo alcuni degli esempi più celebri e interessanti di edifici che hanno fatto la storia della museologia e della museografia. Altre realtà innovative e sempre più sorprendenti nascono ogni giorno, in larga parte abbandonando l’idea di fine Novecento di Supermuseo e riprendendo, soprattutto in Italia, edifici storici. Cosa possiamo immaginare (e sperare), quindi, per il futuro di questa istituzione?
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