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A proposito di Srebrenica

Radovan Karadžić ex comandante della Repubblica Serba di Bosnia è l'autore di atroci crimini di guerra trascurati dalla NATO

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Fonte: BBC

È stato condannato oggi a 40 anni di carcere dal Tribunale penale internazionale de L’Aja l’ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia (1992-1995) e comandante delle sue forze armate, Radovan Karadžić. È stato accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, con ruolo attivo nei genocidi di croati cattolici e musulmani bosniaci avvenuti negli anni della presidenza. È più precisamente colpevole in quanto mandante principale del massacro di Srebrenica del 1995 e dell’assedio di Sarajevo, della persecuzione dei cittadini non serbi nel territorio bosniaco e di aver tenuto in ostaggio dei soldati dell’ UNPROFOR, la forza di protezione delle Nazioni Unite. La sentenza arriva dopo 21 anni dai fatti avvenuti e dopo 8 anni dal suo arresto.

Ripercorriamo qui di seguito solo uno degli avvenimenti, la strage di Srebrenica, per capire l’importanza e il significato di quella che ingiustamente oggi passerà come una sentenza in sordina, sotto le bombe mediatiche delle tristi stragi del Belgio e i cori assordanti che inneggiano alla purezza del mondo occidentale e al disgusto che proviamo verso i tagliagole dell’ISIS… pardon, verso i fanatici musulmani.

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È la mattina del 12 luglio 1995, il generale serbo bosniaco Ratko Mladic concede un’intervista al giornalista Zoran Petrović, per rassicurarlo che le sue truppe sono appena arrivate nel villaggio musulmano di Srebrenica. Il viso è rilassato e alla fine dell’intervista il generale parla con un bambino per dirgli di stare tranquillo. Nel frattempo i militari all’interno del villaggio avevano iniziato dal giorno precedente un sistematico massacro della popolazione adulta maschile. Poche ore dopo, l’intero villaggio sarebbe stato raso al suolo e più di 8.100 vittime musulmane innocenti eliminate.

La guerra era iniziata da tre anni nella regione bosniaca, proclamatasi indipendente dalla ex-Jugoslavia con referendum popolare nel 1992. A quella consultazione però la minoranza serba di religione ortodossa aveva rifiutato di partecipare, chiedendo al contrario l’annessione alla repubblica di Serbia di Slobodan Milosevic. Nei tre anni di conflitto a farne le spese erano state le comunità musulmane, numerose soprattutto nella regione bosniaca, e spesso oggetto di disumani attacchi da parte delle truppe regolari serbe e dei miliziani serbo-bosniaci, in nome della ormai triste espressione, coniata proprio dai leader serbi, “pulizia etnica”. Lo scopo era creare un territorio culturalmente omogeneo che fosse così facile da annettere alla repubblica di Milosevic, che, non a caso, era il finanziatore per eccellenza dei combattenti.

In simile contesto Srebrenica e altri paesi della valle della Drina sono l’ultimo ostacolo che i miliziani serbi non riescono a far cadere, poiché difeso dall’esercito regolare bosniaco e da truppe musulmane locali. Per mesi i combattenti serbi cingono d’assedio la città, cercando di prenderla per fame, e a nulla serve l’intervento dell’ONU, che proclama Srebrenica safe zone, nella quale è proibito continuare i combattimenti. A difesa del paese viene posto un contingente olandese che l’11 luglio, all’arrivo delle truppe di Ratko Mladic, non oppone particolare resistenza. I caschi blu raggiungono velocemente un accordo col generale e ne applaudono il truce discorso: 

Oggi 11 luglio, alla vigilia della festa sacra serba, noi doniamo questa città alla nazione di Serbia, ricordando la rivolta contro i turchi invasori. Ora è il tempo di avere la nostra vendetta sui musulmani.

Il 12 luglio la popolazione musulmana si raduna intorno all’edificio dell’ONU dal quale devono partire gli autobus per trasferire la popolazione in una base vicina. Prima di salire sui mezzi di trasporto però tutti gli uomini con più di 14 anni di età vengono portati dalle truppe di Mladic alla cosiddetta Casa Bianca, un complesso poco distante, lontano dai caschi blu olandesi, con la scusa di controllare se siano anti-serbi. Lì si dà vita a quello che il Tribunale internazionale dell’Aja definirà un massacro coordinato e pianificato ad alto livello. Le donne furono violentate e i bambini sgozzati di fronte ai caschi inermi dell’Onu.

Ciò che poi crea ancora più scalpore è la consegna da parte dei caschi olandesi di centinaia di persone nelle mani dei carnefici. Nel 2014 la Corte dell’Aja, nei Paesi Bassi, ha stabilito che lo Stato olandese è stato civilmente responsabile per l’uccisione dei 300 musulmani bosniaci durante la strage di Srebrenica. Addirittura la corte suprema olandese condanna i suoi stessi caschi blu nel 2013 per essere stati responsabili di ben 3000 morti nel genocidio di Srebrenica.

Quando le truppe della NATO capiscono le dimensioni del genocidio e iniziano a sentire la responsabilità per quello che sta accadendo, comincia un impegno ingente delle potenze occidentali che, grazie a raid aerei, costringono alla resa nel giro di pochi mesi, sempre nel 1995, i miliziani serbi di Bosnia, e alla fuga l’allora presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić e il generale Ratko Mladic.

Oggi, dopo 21 anni da quegli eventi terribili, la memoria ha cominciato a svanire e ci siamo dimenticati di cosa voglia dire genocidio. Ci siamo dimenticati cosa significhi guardare con gli occhi dell’odio, ci siamo dimenticati cosa siano le stragi e le uccisioni di massa, non usiamo più il termine pulizia etnica o razza. Eppure, ogni volta che gridiamo all’invasione, che attacchiamo il nemico che minaccia la nostra purezza, la nostra cultura, che è diverso da noi, che minaccia il nostro essere omogenei, tutte le volte che ci rifiutiamo di accogliere la diversità, che chiudiamo le nostre frontiere, che non distinguiamo tra un rifugiato politico o un fuggitivo da guerre e carestie da un fanatico che usa la fede solo come pretesto e strumento, tutte queste volte è come se chiudessimo gli occhi sul passato, è come se assolvessimo Radovan Karadžić o Ratko Mladic, è come se ci schierassimo dalla loro parte e approvassimo le loro azioni. D’altronde, fino alla fine, anche l’ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia ha voluto ricordare: «Nessuno tra i leader serbi voleva fare del male a musulmani o croati».

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Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

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