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Alla scoperta dei quadri rubati a Verona: “San Girolamo penitente” di Jacopo Bellini

Fra i capolavori trafugati al Museo di Castelvecchio di Verona c’è il San Girolamo penitente di Jacopo Bellini, illustre pittore veneziano.

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Jacopo Bellini San Girolamo penitente, Jacopo Bellini, tempera su tavola, 96x64 cm
San Girolamo penitente, Jacopo Bellini, tempera su tavola, 96×64 cm

Fra i capolavori trafugati lo scorso 19 novembre al Museo di Castelvecchio di Verona c’è una tela, di 96×64 cm, che per lungo tempo non ha ricevuto l’attenzione che merita. Difficilmente citata negli studi iconografici, raramente ricordata tra le opere più significative dell’artista, è rimasta per lungo tempo relegata a semplice comprimaria di esempi maggiormente rilevanti; stiamo parlando del San Girolamo penitente di Jacopo Bellini, pittore veneziano padre dei (più) famosi Gentile e Giovanni.

Formatosi a contatto con l’opera di artisti come Paolo Uccello, Andrea del Castagno e Beato Angelico, Bellini viaggiò per i principali centri del nord Italia trovando a Padova, città dell’allora umanesimo “epigrafico-archeologico”, quell’attitudine antiquaria che caratterizzò buona parte dei suoi dipinti. Trovatosi ad operare nel pieno dell’età della Controriforma, dove all’eresia protestante si doveva rispondere a colpi di grazia e sacralità della penitenza, l’artista veneziano s’inserì perfettamente nel novero di coloro che, attraverso la grande pittura, si fecero paladini della virtù cattolica. I testimonial prediletti del sacramento penitenziale furono, per ragioni facilmente rintracciabili nelle Sacre Scritture, San Pietro e Maria Maddalena, i peccatori per antonomasia, coloro i quali sono stati baciati dalla grazia divina perché l’hanno voluta, cercata e si sono redenti passando per il rito serrato di contritio, confessio e satisfactio.

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L’iconografia della penitenza prevedeva attributi standard, dalle lacrime ben visibili alle mani giunte in segno di contrizione, dallo sguardo rivolto alla luce (divina) all’edera sullo sfondo segno del pentimento che non deve avere mai fine e sempre si rinnova. La scelta di rappresentare San Girolamo in luogo dei due personaggi sopracitati non deve stupire, in quanto era abitudine diffusa ricordare il santo specialmente in virtù della sua rinuncia agli onori e alla volontà di vivere, ritirato, la propria vocazione. Il rifiuto dei beni della vita terrena era infatti un’altra delle carte più sapientemente giocate dalla Chiesa cattolica la quale, ferita nell’orgoglio, doveva rispondere allo scandalo del lusso e delle cariche portato a galla da Martin Lutero.

Ecco che, allora, il San Girolamo di Bellini s’inserisce con tutta la sua potenza in quel filone penitenziale volto a mostrare la superiorità della Chiesa di Roma, la sola – dicevano – voluta da Dio. Rappresentando il Santo inginocchiato nella grotta di Betlemme dove si era ritirato sia per vivere la sua vocazione da eremita sia per attendere alla traduzione della Bibbia, l’artista rende perfettamente cosa significhi “pentirsi”, rinnovando giorno dopo giorno la volontà di espiazione della propria colpa. Girolamo è circondato da infidi animali simbolici connessi al peccato e al Maligno (rettili e scorpioni) e da arbusti secchi della medesima semanticità, mentre con una mano stringe la pietra con cui si batte il petto in segno di penitenza. Davanti a lui stanno la Vulgata e il crocifisso, a perenne testimonianza del sacrificio compiuto da Cristo per amore dell’uomo e per la sua salvezza. Sull’angolo sinistro, in basso, si vede il leone, ormai fedele e ammansito a cui, secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, Girolamo tolse una spina dalla zampa decretando la vittoria della pietà sulla forza bruta.

A completamento del quadro si trova un messaggio chiaro, monito necessario per il buon cristiano pronto a onorare la Chiesa cattolica; dalla caverna, infatti, si intravedono montagne e colline, simbolo della vita che c’è, dei piedi che devono sporcarsi, delle opere che ancora si devono compiere. La vita contemplativa, infatti, benché appaia la strada più idonea al cristiano bramoso d’illuminazione e santificazione, è in realtà quella meno adatta. È la vita attiva a fare di un credente un buon cattolico, anche se comporta il rischio di inciampare, di sbagliare, di contaminarsi col peccato. Forse che una sposa, per evitare di sporcarsi l’abito, non apra la porta al marito la prima notte di nozze? È questo ciò che un cristiano deve fare, scendere tra gli uomini e camminare tra loro. Non basta credere, bisogna agire. Dio non ha già deciso per noi, possiamo pentirci, rinnovarci, e la luce della grazia arriverà: è la dottrina della giustificazione per fede e opere, contrapposta alla Sola Fide, assurdo e inaccettabile (secondo i cattolici) attacco protestante ai dogmi della Chiesa.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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