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Antonio Ligabue e il suo rapporto con l’animalesco

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Il Novecento è per antonomasia il secolo di ricerche stilistiche che evadono dalla verità figurativa, nonostante l’ansia del concetto di realismo rimanga comunque presente (pensiamo alle rappresentazioni di Ettore Tito e Ugo Ojetti). I primi anni del nuovo secolo vedono l’affacciarsi nel mondo artistico di personalità come Amedeo Modigliani, malinconico e delicato ritrattista, le figure metafisiche di Giorgio De Chirico e di Carlo Carrà, l’approdo a espressioni cubiste da parte di Umberto Boccioni e Giacomo Balla, la corrente informale di Lucio Fontana e Alberto Burri, ma anche il neorealismo di Renato Guttuso. In mezzo al magma delle nuove o rinnovate correnti artistiche, vi è l’emergere di artisti che hanno capovolto con la loro genialità il senso prestabilito delle cose. Come Giorgio Morandi, che per tutta la vita dipinse quasi solo nature morte, insistendo su pochi e sparuti oggetti nei quali ritrova un’armonia ricavata dalla fenomenologia degli oggetti. E tale era anche Antonio Ligabue, che nacque nel 1899 a Zurigo da Elisabetta Costa — registrato all’anagrafe come Antonio Costa.

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Affidato a una coppia di svizzero-tedeschi, Elise Hanselmann e Johannes Valentin Göbel, Antonio Ligabue rimase con loro per vent’anni (sebbene non verrà mai legittimata la sua adozione), intessendo una relazione di amore e odio con la propria matrigna. Durante la sua infanzia amava curare il giardino di casa, e accudiva con la matrigna i suoi 14 conigli, tanto che la Göbel scrisse di lui: «Antonio non è di cattivo carattere, non ama le bevute, non i divertimenti, la sua soddisfazione è giocare con le bestie a casa».

Sin dall’infanzia Antonio fu un bambino impulsivo e violento, da adolescente entrò all’istituto di Marbach, un collegio per ragazzi disabili; e successivamente venne ricoverato nella clinica psichiatrica di Pfäfers a causa di una crisi violenta nei confronti della madre adottiva.

Perennemente scostante e in fuga, sembrava che per lui l’unica cosa davvero importante fosse il presente, vissuto con un’imperitura malinconia. Fuggiva continuamente anche dall’ambiente domestico, rincasando poi in modo altrettanto repentino. Questo gli costò l’espulsione dalla Svizzera l’11 giugno 1918 per “misure di Pubblica Sicurezza e Vagabondaggio”.

Successivamente il pittore si stanziò a Gualtieri, vivendo grazie ai proventi del Comune, di quello che gli invia la matrigna svizzera e della carità dei compaesani. Animato da una forte nostalgia di casa e della madre adottiva, Antonio si chiuse sempre più in sé stesso, alimentando l’impossibilità di comunicare con gli altri e a trovare un lavoro stabile.

Prese infatti a lavorare sempre più saltuariamente, vivendo come un selvaggio nei boschi e nelle golene del Po, iniziando a dipingere sempre più assiduamente e a scolpire con l’argilla.

Abbandonato il lavoro lo si vedeva spesso girovagare, finché non avvenne l’incontro con lo scultore Marino Mazzacurati. Il loro sodalizio gli permise di acquisire consapevolezza di sé e delle sue doti artistiche. Nel frattempo, il mondo contadino stava iniziando a subire la forte crisi economica che preludeva l’arrivo del fascismo.

Nel 1937 venne internato per la prima volta nell’Ospedale Psichiatrico di San Lazzaro di Reggio Emilia (vi tornerà altre due volte nel corso della sua vita) a causa del suo carattere irascibile e violento e del suo stato depressivo. In quegli anni iniziarono anche a verificarsi i primi episodi di autolesionismo, in un modo del tutto simile all’automutilazione di Van Gogh.

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Nel frattempo, lentamente la sua fama si iniziò a diffondere. Vinse premi, vendette diversi quadri, trovò amici che lo ospitano; su di lui si girarono documentari e film. Nel 1961 venne allestita una mostra con le sue opere a Roma e iniziò a crearsi attorno alla sua figura quell’aura mitologica che non lo abbondonerà più.

Nello stesso anno ebbe un incidente in motocicletta e venne ricoverato per un mese all’ospedale. L’anno successivo venne colpito da paresi. Sul letto di morte, chiese di essere battezzato e cresimato mentre la fama delle sue opere acquistò dimensione nazionale. Morì nel 1965.

antonio ligabue
Fonte: Fondazione Archivio Antonio Ligabue

Della vita travagliata di Antonio Ligabue si parla spesso con accezione quasi mitologica: i suoi tratti fisiologici sono famosi soprattutto grazie alla sua serie di autoritratti, attraverso uno sguardo penetrante e il mutare degli indumenti che indossa, nelle ferite che si cicatrizzano e nei capelli sempre più bianchi.

Emblematico a tal proposito è il film di Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, che ha l’arduo compito di raccontare la vita del pittore, interpretato da un magistrale Elio Germano e uscito nel 2020. Interessante notare come in questa pellicola si evincano bene i connotati caratteriali di Ligabue, che non era solamente un emarginato, quanto piuttosto un uomo che lottava per trovare il proprio posto nella società.

Dalla parlata stramba, simile a una koiné di svizzero-tedesco e della bassa reggiana, era quello che oggi definiremmo un emancipato; parlava in modo secco, brusco, gesticolava. Soffriva di sbalzi d’umore che trovavano la loro massima espressione nel rapporto osmotico che aveva intessuto con la sua matrigna, Elise. C’è inoltre il fatto che Antonio Ligabue fu, fin dalla tenera età, un migrante, quasi un ramingo, senza terra e senza appartenenza: condizione che in qualche modo peserà anche nella sua arte, costringendolo a rappresentare sempre la fugacità del momento.

In un urlo quasi ferale, le sue parole – come i suoi quadri – raccoglievano e raccontavano il suo dolore, i suoi umori e le sue idiosincrasie.

Le sue frasi, spesso iterate, sono state interpretate come sconnesse o illogiche, come quando rispondeva «So io, so io!» a chi gli chiedesse delucidazioni sulla sua arte.

testa di tigre di antonio ligabue
Testa di tigre, olio su faesite, 66x57cm

Questi aneddoti sono entrati nella memoria collettiva in alcuni casi ostracizzando il genio, in altri elevandolo; ma sono spesso gli aneddoti che ne hanno privilegiato una retorica che non è mai andata oltre la superficie. Antonio Ligabue fu un artista che ritornò all’origine delle cose, intessendo una personalissima interpretazione delle credenze collettive che in lui fioriscono come archetipi, dei fossili disordinati, senza che lui ne avesse probabilmente una vera cognizione.

Viveva nella proiezione dei propri miti, delle proprie credenze, elaborando dei rituali che hanno origini antiche. Non è attraverso la sua definizione psichiatrica che possiamo condensare quest’uomo, ma occorre forse andare a fondo nelle tradizioni popolari, immergersi nel folklore che anche lui percepiva, e viveva. Nel mondo contadino lui si sentiva a casa propria, emancipato tra gli emancipati, in opposizione all’avvento della società industrializzata che tendeva a omologare il “normale” e isolare il diverso. Grazie al mondo contadino, e rispettivamente nella natura e nel mondo animale, Ligabue codificò un personale alfabeto per elevarsi grazie proprio a quella diversità che l’aveva fatto demonizzare nel mondo “normale”. A Gualtieri, Ligabue era “il tedesco” o “il matto” e questi epiteti non assunsero mai un connotato negativo, perché l’accettazione era intrinseca all’appartenenza a quel mondo che riusciva a coglierne l’individualità e dunque la bellezza.

Parlava agli animali così come agli uomini, con frasi schiette e pratiche, per premiarli e punirli, ma soprattutto per benedirli quando se ne allontanava.

Ligabue diventa Ligabue (abbandonando il cognome Leccabue) quando inizia a firmare i primi quadri: non aveva una reale necessità di farlo perché per tutti era “Toni”. Ecco dunque che questa sottoscrizione assume un significato magico e quasi purificatore, racchiudendone l’anima e l’intento: abbandona il contadino per diventare un pittore, un interprete del mondo che ha sino a quel momento solo abitato. 

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Egli trova nella pratica pittorica un indizio per colmare un vuoto, tacciato spesso come inefficienza o pazzia dalla società che lo circondava: per lui era un calmierante contro la sua indole, un riavvicinamento all’animalesco che egli scorgeva nella natura, dimenticandosi che abitava anche il suo corpo. Aveva un sincero bisogno di immedesimarsi negli animali prima di tracciare le linee che li ritraevano:  la tela era il punto d’incontro dove genialità e pazzia s’incontravano. Emblematico a tal proposito è l’aneddoto che racconta di come fuggì da Staad e dal lavoro come contadino dopo aver visto uccidere una capra.

L’ossimoro racchiuso nella parola “animalesco” (che per Treccani sta a significare qualcosa che ha natura e comportamento indegni di un essere umano e quindi sinonimo di animale, ma anche bestiale, brutale, crudele, disumano, ferino, inumano, irragionevole, irrazionale) in Ligabue s’incontra e si confonde: dove l’artista ha bisogno di immedesimarsi per rinnovare un’unione tanto sacra quanto ferale con l’animalesco che ci abita, ecco che l’epifania ha luogo e ne consegue l’ispirazione che porterà alla creazione dei suoi capolavori.

Nell’area reggiana, mantovana e parmense vagabondava sulle anse del Po, affascinato dal baluginio del sole su quelle acque sacre. Anche su queste sue usanze sono spesso fioriti aneddoti, che l’hanno forzatamente reso un abitante dei boschi, quasi un selvaggio. Eppure nelle sue tele appare una genialità controllata, attentamente meditata. I soggetti delle sue opere sono spesso riconducibili a iconografie consolidate, assoggettando l’animalesco a una storia di tradizioni popolari rappresentative di un mondo che stava forse svanendo.

Antonio Ligabue dipingeva con un rituale preciso: doveva entrare emotivamente in contatto col soggetto, con l’immagine che veniva crescendo dentro di lui, arrivando a identificarsi con l’animale che voleva ritrarre. Ligabue infatti prima studiava sulle pagine dei libri i suoi soggetti e poi li dipingeva, identificandosi con loro attraverso l’assunzione dei loro atteggiamenti.

elio germano nei panni di antonio ligabue
Elio Germano nel film Volevo nascondermi, 2020

Dipingeva senza partire da un modello, veniva assorbito dall’atto del dipingere quasi totalmente, imbrattandosi con i colori e sporcando tutto intorno a sé. Il quadro nasceva sempre dall’occhio e da quel particolare andava via via delineandosi. L’occhio era perciò il fulcro, il centro perfetto dell’universo conosciuto dall’artista. Sull’iride, specialmente nei propri autoritratti, Ligabue poneva sempre una macchia bianca, come a voler catturarne il riflesso della luce. Gli animali che rappresenta erano spesso terrorizzati, in pose quasi contorte, spaventati e aggressivi: il pittore diventa in questo caso un magistrale interprete della loro irrequietezza.

Spesso arrivava alla fine della tela constatando, irritato, di non avere abbastanza spazio per completare l’opera che si era prefissato; senza averne a priori delimitato un rapporto d’insieme. Viveva l’immagine come un’estensione, quasi una diramazione di particolari, che riportava nella tela ossessivamente. La sua memoria visiva esplode con l’universo di colori che proietta nel foglio; lui che ricordava sempre poco del proprio passato ma era in grado di riprodurre con maniacale arguzia i dettagli – veri o presunti – dei soggetti delle sue tele.

Tappezzava la propria stanza di specchi, come a voler sottendere la volontà di una ricerca dell’origine, del sostrato delle cose e degli esseri viventi. Ma non solo ne coglieva l’essenza: Antonio Ligabue mentre dipingeva spalancava la bocca, ruggiva, e si trasformava nella belva che voleva evocare, mimandola…in un gioco di scambi che vuole andare oltre l’immagine riflessa, e cogliere la vera essenza, l’anima, del mondo che abitiamo.  

Per avvicinarci a questo artista dobbiamo attendere la riapertura della mostra Antonio Ligabue. Una vita d’artista curata da Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi (inizialmente prevista dal 31 ottobre 2020 al 5 aprile 2021 a Palazzo dei Diamanti di Ferrara), al momento chiusa fino a nuove disposizioni governative. La mostra documenta tutta l’attività di Antonio Ligabue attraverso oltre cento opere, tra dipinti, sculture e disegni, alcune mai esposte sinora. Nel percorso emergono i temi fondamentali della sua ricerca: dal diario intimo degli autoritratti ai paesaggi del cuore, dai ritratti alle nature morte, dagli animali selvaggi a quelli domestici, dai paesaggi agresti alle scene di caccia e alle tormente di neve. Un racconto che pone l’accento sulla singolarità della sua poetica e rivela la forza naturale, pura e istintiva del suo genio.

 


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Ester Franzin

Lettrice incallita, amante della letteratura e della lingua italiana in tutte le sue declinazioni. Classe 1989, è nata in un paesino della Pianura Padana. Si è laureata in Storia dell’Arte a Venezia e poi si è trasferita a Rimini, nel cuore della Romagna. Ha frequentato la scuola Holden di Torino e pubblicato il suo primo romanzo «Il bagno di mezzanotte».

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