Spesso sentiamo parlare di Arte Povera, senza però coglierne davvero il significato. Deduciamo dal nome che si tratti semplicemente di una corrente artistica dove, per antonomasia, regnava una povertà espressiva dei mezzi utilizzati per raggiungere il fine artistico ultimo, l’opera d’arte finita. Ma è impossibile dare una corretta definizione di questo movimento artistico senza inquadrarlo in un preciso momento storico, ovvero il 1966.
Germano Celant, forse il massimo teorico di definizione dei movimenti artistici a cavallo con il nuovo millennio, mutuò il termine Arte Povera dal teatro di Jerzy Grotowski, parlando di «riduzione ai minimi termini, impoverimento dei segni per ricondurli ai loro archetipi». L’articolo apparso su Flash Art che di fatto consacrò il movimento s’intitolava Arte Povera: Appunti per una guerriglia (1967) e questo ci dice già molto sull’origine del termine che coniò il movimento.
A suo dire, l’Arte Povera faceva riferimento ad «un’espressione così ampia da non significare niente. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare quello che hai nel mondo animale». L’Arte Povera promuoveva quindi una filosofia di vita, una filosofia all’azione e alla ribellione.
Non solo infatti rifiutava i mezzi espressivi tradizionali e impiegava materiali non-artistici, come materiali poveri e organici oppure scarti industriali (legno, pietra, terra, fibre vegetali, stracchi, scampoli etc); ma nell’atteggiamento di negazione di cui si avvaleva era evidente una volontà o – per meglio dire – una necessità, legata indiscutibilmente ad un periodo storico che precede il ’68 e che voleva riappropriarsi dell’elemento naturale attraverso l’espressività artistica.
Si trattava dunque di un fine estremamente utopico che nasceva con una chiara connotazione sovversiva; un movimento che si dichiarava lontano dalle correnti politiche ed economiche dell’epoca, piuttosto indissolubilmente legato ad una ricerca di rinnovati valori (connessi al tempo, alla materia, all’assolutezza della vita umana così dipendente in quegli anni, come oggi, alle cose materiali).
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L’Arte Povera rifiutava ogni inserimento in una corrente politica e rifiutava di essere fruibile per le masse che, tuttavia, erano abituate all’angoscia legata ai temi del consumismo e dello scarto; si pensi alla tenacia e perseveranza della Pop art in quegli anni. Il fine era probabilmente similare, ma in questo caso il movimento fu un movimento dissacratore, dove gli oggetti erano pensati per essere deperiti, quasi come dei feticci. Quello che, nel caso dell’Arte Povera fece quindi la differenza, fu il fine con cui venivano impiegati i materiali poveri.
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La consacrazione internazionale arriva nel ’69 con la mostra When Attitudes Become From a Berna, alla quale parteciparono alcuni di quelli che furono definiti i massimi esponenti di questo movimento, come Boetti, Calzolari, Kounellis, Merz, Pascali, Pistoletto, Prini, Anselmo e Icaro.
Emblematica fu l’esposizione di un mucchietto di cenere (opera di Reiner Ruthenbeck del 1968), che voleva mettere in luce la caducità dell’uomo e l’inconsapevole giustificazione a utilizzare materiali poveri per definire un messaggio chiaro.
Arte Povera: i suoi maggiori esponenti
Michelangelo Pistoletto (1933) viene considerato uno dei suoi massimi esponenti, anche se la sua adesione all’Arte Povera non durò più di qualche anno. Da sempre gioca con la figura archetipa dello specchio ed ebbe il merito di dare ancora più definizione al movimento con la sua famosa opera Venere degli stracci (1967), le cui immagini fecero il giro del mondo.
Pino Pascali (1935-1968) esplorò le radici della cultura mediterranea, come il mare, la terra e gli animali; ripercorrendo una dimensione ludica dell’arte – dove persino le armi diventavano giocattoli realizzati con materiali di recupero – e molti suoi lavori riprendevano in maniera dissacrante le icone della cultura di massa.
Jannis Kounellis (1936 – 2017) si rifece sempre alla funzione mitica dell’arte, legandola anche alle sue origini greche: le sue installazioni sono delle scenografie che prendono quasi vita, occupando intere sale. Lo spettatore è invitato a diventare così parte attiva, attore protagonista nello spazio dell’opera d’arte che, per definizione, inizia a cambiare.
Celebre fu la sua performance Cavalli del 1969 alle pareti della galleria L’Attico di Fabio Sargentini, dove natura e cultura si incontrano e il ruolo dell’artista è ridotto a mero esecutore del fatto che si compie.
Mario Mertz (1925 – 2003) connotava sempre le sue opere con la sequenza di Fibonacci (rappresentato attraverso il neon). La sua produzione artistica si concentrò nella figura dell’igloo, facendoci inesorabilmente riflettere tra l’uomo inteso come singolo e i suoi rapporti con la società. Merz si immerse totalmente nei materiali poveri come il ferro, la cera, la pietra e la terra, elementi che determinarono il totale abbandono della pittura tradizionale per una definitiva svolta materica.
Alighiero Boetti (1940 – 1994) si interrogò invece sul concetto del tempo, che dal caos riporta ai numeri e alle lettere. Utilizzò il concetto del tempo e dello spazio riportandolo in grandi arazzi, mettendo anche in discussione il ruolo tradizionale dell’artista (spesso si interroga anche sul tema della serialità dell’opera d’arte fine a sé stessa). Boetti guardava con una certa sfiducia il mondo della pittura, percependolo come un tradimento degli ideali esplosi nel ’68: la pittura a suo avviso portava all’estraneazione dal mondo, alla solitudine, mentre l’opera d’arte concettuale ti costringeva ad essere immerso nel presente, nell’odierno.
Ester Franzin
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