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Battaglia dei Campi Catalaunici

La storia della battaglia dei Campi Catalaunici

Lo scontro tra Flavio Ezio e le sue truppe con gli Unni di Attila fu una carneficina. Alla fine furono i romani ad avere la meglio, ma la battaglia dei Campi Catalaunici fu il canto del cigno dell'Impero d'Occidente?

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451 dopo Cristo, venticinque anni prima della caduta dell’Impero romano d’Occidente e quindi dell’inizio del nostro Medioevo. La Città eterna era agli sgoccioli: era stata saccheggiata dai Visigoti nel 410 e sarebbe stato il turno dei Vandali nel 455, gli imperatori si susseguivano senza ordine in un bagno di sangue, la stessa Roma non era più capitale da più di un secolo. La provincia della Gallia, il capolavoro di Cesare, romanizzata e fiorente, era ormai quasi fuori controllo per i dominatori, mangiucchiata dalle popolazioni barbariche che da foederate dell’Impero (quindi libere di vivere nei territori di confine e costrette solo a garantire un flusso di soldati ausiliari per l’esercito) diventavano sempre più autonome: Alani, Burgundi, Franchi, Alamanni, Goti, che in modo altalenante erano ora alleati in battaglia, ora spine nel fianco di Roma.

Proprio una pianura gallica fu teatro dello scontro che viene considerato l’ultima grande avventura bellica dell’Impero romano d’Occidente: la battaglia dei Campi Catalaunici, così chiamati per la popolazione dei Celti Catavellauni che abitavano quel territorio intorno alla loro capitale Châlons Sur Marne. Da una parte c’erano i Romani, affiancati da Visigoti e Alani, dall’altra gli Unni con gli alleati Ostrogoti e Gepidi. A capo degli schieramenti due degni personaggi: rispettivamente il generale Flavio Ezio e Attila, flagello di Dio.

Ezio, magister militum, quindi comandante supremo dell’esercito, combatteva instancabilmente soprattutto in Gallia da almeno una quindicina d’anni per difendere i fragili confini dell’Impero d’Occidente in mano a Valentiniano III e a sua madre Galla Placidia. I suoi agganci con l’aristocrazia romana (a cui era appartenuta la madre, a differenza del padre proveniente dalla Moesia, attuale Bulgaria) e la sua effettiva abilità in battaglia gli avevano permesso di rimanere al suo posto durante il susseguirsi di congiure del V secolo.

Sappiamo che gli Unni vivevano sulle sponde del Mar Caspio almeno dalla fine del I secolo d.C., arrivati dalle steppe asiatiche. Poi, nel IV secolo, parteciparono all’immensa migrazione di popoli che abbiamo imparato a chiamare «invasioni barbariche»: sulla scia di quegli eventi, in modo indiretto, le tribù unne avevano già sortito effetti sull’Impero quando, con la pressione della loro avanzata verso ovest, avevano schiacciato altre popolazioni contro il limes, costringendole spesso allo scontro con i formali possessori di quelle terre: nella battaglia di Adrianopoli del 378 i Visigoti di Frigiterno avevano sterminato l’esercito romano proprio scappando dagli Unni. Ciò non impedì a questi ultimi di combattere più volte a fianco dei Romani – nonché dello stesso Ezio – anche se per rallentare le loro scorrerie dagli inizi del V secolo Roma aveva iniziato a pagare loro grandi somme. Questo stallo traballante tra gli Unni e Roma durò finché i primi restarono divisi in tre regni. Poi arrivarono Bleda e il fratello minore Attila, che guidati dall’ambizione di creare un unico grande impero unno riunirono le tribù sotto il loro comando. Negli anni Quaranta Attila eliminò il fratello e gli Unni divennero una piaga conquistandosi la loro fama spaventosa, soprattutto nei territori lungo il Danubio, saccheggiando città e costringendo l’Impero d’Oriente a paci umilianti. Nel frattempo da Occidente Ezio cercava una trattativa impossibile, alimentando la tensione.

Da parte sua Attila cominciò a stringere rapporti sempre più stretti con le tribù galliche che si stavano ribellando contro Roma, mentre i rapporti diplomatici si logoravano. Addirittura Onoria, sorella dell’imperatore rinchiusa in convento per evitare complicazioni nella successione e quindi costretta a una vita nell’ombra, si offrì in sposa al capo unno; quando Attila chiese in dote per lei metà Impero, Valentiniano III naturalmente rifiutò.

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Nel 451 gli Unni si mossero, approfittando di una serie di eventi che facevano apparire l’Impero d’Occidente al pieno della sua fragilità; alcune stime parlano di centinaia di migliaia di persone in movimento, decise anzitutto di regolare i conti con i vecchi rivali Visigoti (istigati dai Vandali) e a congiungersi con tutti i potenziali alleati in Gallia. A questo punto anche Ezio marciava nella stessa direzione, per interrompere la scia di distruzione che Attila lasciava dietro di sé. Gli Unni riuscirono ad evitare un tentativo di accerchiamento radunandosi finalmente ai Campi Catalaunici, dove, durante la battaglia, avrebbero potuto sfruttare la cavalleria in tutta la sua potenza. I Romani e i loro alleati erano pronti ad affrontare lo schieramento radunato da Attila nella sua marcia verso occidente.

La particolarità era che tanti popoli diversi si stessero per scontrare, ognuno con le sue armi e strategie, finalizzate all’eliminazione del nemico; negli accampamenti romani alcuni gruppi di combattenti dovevano essere tenuti separati per le rivalità dei loro popoli: è interessante immaginare quale atmosfera mistica, quali suoni e rumori, quante lingue si percepissero tra le tende la notte prima della battaglia dei Campi Catalaunici. L’aspetto più drammatico per i contemporanei fu che i Visigoti si trovarono a combattere contro i loro lontani cugini Ostrogoti, da cui si erano separati proseguendo nel continente europeo quando questi ultimi si erano fermati lungo il Dnepr pochi secoli prima. 

Attila prese l’iniziativa della battaglia nel pomeriggio, scatenando presto una mischia ferocissima per il controllo di un’altura su un lato della pianura. Fu uno degli scontri più violenti e mortali di quel secolo. Sul numero di morti – come d’altronde di quello degli effettivi in campo – le (poche) fonti sono discordanti e quasi certamente esagerate: si va da alcune decine di migliaia ad addirittura 300.000 morti rimasti sul campo. L’unica certezza è che la battaglia dei Campi Catalaunici fu una carneficina come non se ne vedevano da parecchio tempo. Quando dopo alcune ore giunse il buio ed entrambi gli schieramenti si ritirarono nei rispettivi accampamenti, finché all’alba gli Unni decisero di ritirarsi tornando sui propri passi: fu per questo che Ezio, e i Romani con lui, celebrarono il massacro come una vittoria.

Le fonti concordando sull’eroismo del re visigoto Teodorico I (non imparentato con il celebre omonimo sepolto a Ravenna che sarebbe stato re degli Ostrogoti pochi decenni dopo), morto in battaglia. Suo figlio Torrismondo, succedutogli nel pieno dello scontro, abbandonò l’accampamento degli alleati romani subito dopo la battaglia, secondo alcuni per l’egocentrismo di Ezio, che non voleva condividere il suo prestigio con un altro personaggio carismatico, secondo altri per la fretta di occupare il trono che già i fratelli gli contendevano, oppure perché semplicemente il compito dei Visigoti come foederati era finito ed era ora di tornare a farsi gli affari propri.

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Si sarà già capito: la vittoria romana non fu decisiva come ancora in molti pensano; l’effetto più importante fu evitare che l’orda unna dilagasse in Gallia, ma l’esercito ne usciva notevolmente indebolito mentre l’orda unna era solo ridimensionata. Si dimostrò anche che Attila non era imbattibile in combattimento, anche se ciò non impedì all’unno di calare in Italia l’anno successivo per pretendere la mano di Onoria e tentare di saccheggiare Roma. Si sarebbe poi fermato solo per la mancanza di città stabilmente nelle sue mani e quindi di rifornimenti.

Secondo gli esperti Ezio commise un errore decidendo di non travolgere il campo unno e sterminare i nemici prima della loro partenza. Forse Attila era un nemico necessario per mantenerlo al suo posto, o un potenziale futuro alleato con cui sperava di poter un giorno tenere le redini dell’Impero. Fatto sta che il sacrificio nella battaglia dei Campi Catalaunici è considerato dagli storici il canto del cigno dell’Impero d’Occidente, che di “romano” ormai aveva ben poco.  

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Immagine in copertina da Pinterest

Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole, montagne e un po' di pace. Specializzato in storia economica e sociale del Medioevo, ho fatto un po' di lavori diversi ma la mia vita è l'insegnamento. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

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