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Chi era re Artù?

A metà tra la realtà storica e la leggenda, la figura di re Artù ha affascinato nel corso dei secoli autori, compositori e persino case cinematografiche. Scopriamo di più sulle origini e l'impatto di questo mito: è davvero tutta fantasia?

11 minuti di lettura

Nulla urla Medioevo quanto le imprese di re leggendari e cavalieri eroici, boschi misteriosi e una ricerca (una quête o quest) apparentemente impossibile. La bellezza di questa lunga e sempre più varia epoca storica passa anche per i suoi elementi epici, il cui studio non è certamente più immaturo o fanciullesco di quello degli aspetti sociali, economici o politici. Se dovessimo scegliere un personaggio capace di incarnare alla perfezione il Medioevo leggendario, la scelta potrebbe facilmente ricadere su re Artù, figura a metà tra realtà e leggenda capace di catalizzare l’attenzione di studiosi e appassionati per secoli. Ma come nacque il suo mito? E come ha fatto ha radicarsi nella società bassomedievale con una forza tale da arrivare con tutta la sua forza, di generazione in generazione, fino a noi?

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La leggenda di re Artù: un po’ di storia

È bene chiarire fin da subito che non possiamo affermare con certezza che re Artù sia mai esistito (né forse mai potremo farlo). La prima apparizione di Artù in letteratura risale all’inizio del IX secolo, quando il cronista gallese Nennio parla di lui nella Historia Brittonum come di un prode generale (un dux bellorum) che combatté accanto al re dei Bretoni contro i Sassoni, sbaragliandoli in più di una battaglia e arrivando a ucciderne 960 in una sola carica.

Due personaggi che potrebbero aver ispirato la figura di Artù sono Ambrosius Aurelianus, comandante romano-britanno che vinse un’importante battaglia contro i Sassoni, oppure Riothamus, un misterioso re dei Britanni giunto «dall’Oceano» in aiuto di Roma alla fine del V secolo e rifugiatosi tra i Burgundi dopo essere stato sconfitto dai Visigoti. A prescindere da tutto, non c’è dubbio sul fatto che le origini del mito siano comunque celtiche e bretoni, come dimostrano la dimensione geografica o quella onomastica, nonché la presa che le leggende ebbero sul mondo culturale francese.

La data di nascita vera e propria di re Artù per come lo conosciamo oggi va ricercata nella Historia Regum Britanniae, opera in versi scritta in latino nel XII secolo. L’autore è Geoffrey (o Goffredo) di Monmouth, canonico di Oxford, che la compose tra il 1135 e il 1138. Vi si ricostruisce la storia semi-leggendaria dei re bretoni a partire dalla civilizzazione compiuta da Bruto, mitico discendente di Enea. L’ultimo di questi re, di nome Uther Pendragon (nella versione di Geoffrey di Monmouth fratello dell’Ambrosius Aurelianus, di cui abbiamo parlato sopra), avrebbe concepito Artù, succedutogli sul trono a soli quindici anni. In questa storia re Artù sbaraglia tutti i nemici che incontra, conquistando le Isole Britanniche e gran parte della Francia e arrivando persino ad attaccare Roma; il perfido nipote Mordred però usurpa il suo trono, costringendolo a tornare in Gran Bretagna per ucciderlo. Nell’ultimo scontro Artù stesso rimane ferito a morte e viene trasportato sulla misteriosa isola di Avalon per essere curato; lì attenderebbe ancora il momento opportuno per riconquistare i suoi possedimenti.

Le opere di Geoffrey, che scrisse anche opere legate al mago e consigliere Merlino come le Prophetiae Merlini e la Vita Merlini, ebbero un successo straordinario e diedero il via al cosiddetto ciclo arturiano (o materia di Bretagna), ossia tutte le varianti delle leggende che ruotano attorno alle avventure di re Artù e dei suoi cavalieri. Già nel 1155 circolava una traduzione dell’Historia in francese, il cosiddetto Roman de Brut scritto dal normanno Robert Wace.

Entra in gioco qui, tra 1160 e 1185, la produzione del francese Chrétien de Troyes. Dobbiamo a questo straordinario poeta la fusione definitiva tra la tradizione guerriera di opere come la Chanson de Roland e la lirica provenzale, operata alla corte di Maria di Champagne, a sua volta autrice che contribuì all’arricchimento del ciclo (su questo tema e sull’influenza decisiva avuta da Maria su questi processi culturali si veda il recente libro di Chiara Mercuri, La nascita del femminismo medievale. Maria di Francia e la rivolta dell’amore cortese, Einaudi, 2024).

Dalla fine del XII secolo le opere in prosa e poesia che confluiscono nel ciclo arturiano sbocciano come fiori nell’Europa dei cavalieri e dell’amor cortese. Nelle leggende arturiane ritroviamo tensioni che da sole possono riassumere i secoli XII e XIII, quelli medievali per antonomasia. Artù e i suoi sono anzitutto grandi guerrieri, abili nel combattimento quanto custodi di virtù morali esemplari; incarnano un passaggio essenziale della riflessione sulla nobiltà che tormentava gli intellettuali medievali: è lo stesso Lancillotto, il cavaliere più celebre e sfaccettato della corte, quello che tradisce il suo signore con la regina Ginevra, a dichiarare che mentre riceviamo le virtù del corpo (come la bellezza e la forza) alla nascita, siamo tutti capaci di ottenere quelle del cuore (come la cortesia, la saggezza e la pietà) se riusciamo a non essere pigri.

Non manca chiaramente anche una dimensione religiosa: la ricerca definitiva dei cavalieri è quella del Graal, il sacro vaso o calice usato nell’ultima cena e in cui poi Giuseppe d’Arimatea avrebbe raccolto il sangue di Cristo morente. In molti vedono poi un parallelismo tra l’attesa di Artù ad Avalon e quella di Gesù, pronto a tornare per il Giudizio Universale. Nel ciclo arturiano infine trovano ampio spazio le tematiche dell’amore, che fa toccare le vette spirituali e sensoriali più elevate ma spinge anche verso errori e tradimenti imperdonabili.

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Il successo del ciclo arturiano

Ma perché le storie di re Artù ebbero un successo così straordinario al loro tempo? Per capirlo dobbiamo entrare più a fondo nella realtà sociale del XII e XIII secolo. La cavalleria si stava trasformando definitivamente in un ceto ereditario, che ospitava famiglie di nobiltà antica ma anche di parvenus riusciti a ottenere titoli (e feudi) grazie al loro servizio; questo ceto relativamente nuovo stava delineando la sua identità, la sua ritualità e il suo sistema di valori (un codice cavalleresco) da rispettare per non essere esclusi dai privilegi e dal prestigio che derivava dall’appartenenza. O dentro o fuori insomma, a costo di pretendere – almeno sulla carta e come ideale – imprese epiche.

Quanto detto sopra su Lancillotto e la “sua” idea di nobiltà non è casuale: spesso le famiglie di recente ascesa si trovavano a combattere per poter affermare la parità con quelle appartenenti alla nobiltà tradizionale; il cavaliere di re Artù dice che sulle virtù “di nascita” (proprio come la nobiltà di famiglia) abbiamo poco potere, mentre su altre (guarda caso quelle che caratterizzano davvero un bravo cavaliere) siamo noi stessi ad autodeterminarci. Come poteva un simile messaggio, portato avanti da tutti gli eroi della tavola rotonda – a sua volta simbolo egualitario – non affascinare i nobili più recenti, che in molti casi sapevano benissimo di valere molto più delle famiglie antiche?

Anche per questi motivi il successo del ciclo bretone nel Medioevo è paragonabile solo a quello che ebbe la Divina Commedia un secolo e mezzo più tardi, ed è rimasto immutato fino a oggi grazie ad autori come Jean Froissart nel Trecento e Thomas Malory alla fine del Quattrocento, compositori come Henry Purcell nel Seicento ed Ernest Chausson nell’Ottocento, e a case cinematografiche come la Disney, la cui Spada nella roccia è stata consumata nel formato cassetta dall’autore di questo articolo.

Nel paesino bretone di Paimpont, nel cuore della mitica foresta di Brocéliande, la gente abita in vie che hanno nomi come Rue de l’Enchanteur Merlin o Rue du Chevalier Lancelot du Lac; poco distante, a Comper, si trova il Centre de l’imaginaire arthurien, creato negli anni Ottanta del secolo scorso per promuovere eventi culturali e di intrattenimento legati proprio al ciclo arturiano. E questa lista potrebbe continuare per pagine e pagine, a dimostrare che l’epopea di Artù, fin dalla sua nascita, ha sempre fatto brillare gli occhi dei bambini e anche dei grandi Don Chisciotte, che sognano ancora di impugnare una spada e andare alla carica contro un drago sputafuoco.

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Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole, montagne e un po' di pace. Specializzato in storia economica e sociale del Medioevo, ho fatto un po' di lavori diversi ma la mia vita è l'insegnamento. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

1 Comment

  1. Fin dall’infanzia sono affascinata dalle leggende medievali. Nobili cavalieri castelli più o meno incantati… Ora che son vecchia continuo ad amare le miniature francesi del XIV sec., i paesaggi bretoni, il Parsifal e ovviamente Re Artù e la sua ta vola rotonda…

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