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Come un frate contribuì a fondare la letteratura italiana

Nel Duecento cominciò la graduale trasformazione del latino che portò alla nascita della lingua italiana. Una spinta decisiva venne dalla religione, grazie al «Cantico delle Creature» di San Francesco

4 minuti di lettura

Quando è nata la letteratura italiana? Le memorie scolastiche si sprecano: Dante, Boccaccio e Petrarca, Guido Guinizelli, lo stilnovo, la scuola siciliana… Spesso però dimentichiamo il rilievo che ebbe la poesia religiosa nel corso del Duecento (grazie a figure importanti come Francesco d’Assisi) con la sua capacità di rispondere alle necessità della popolazione di fronte al ruolo vacillante della Chiesa di Roma, così impegnata in questioni mondane da essersi quasi dimenticata lo scopo di cui si era fatta carico poco più di un millennio prima.

A partire dall’XI secolo la spiritualità cristiana si stava rinnovando radicalmente. L’Europa veleggiava ormai stabilmente secondo le regole del Basso Medioevo: la borghesia artigianale e mercantile guidava le città, ormai sempre più spesso entità politiche autonome, mentre si confrontava con popoli e culture diversi, mano a mano più vicini grazie alle rotte commerciali. Il Mediterraneo stava tornando ad essere un lago quasi sicuro, i campi producevano tanto grazie a numerose innovazioni tecnologiche e la popolazione aumentava. Insomma, forse le cose non andavano poi così male.

La religione cristiana stava uscendo di prepotenza dalle mura dei monasteri e delle chiese, raggiungendo ceti che potevano finalmente concedersi il lusso di interrogarsi sugli insegnamenti del Vangelo e su quanto di tutto ciò fosse davvero messo in atto dalla Chiesa. Era chiaro a tutti che le autorità ecclesiastiche stessero perdendo il contatto con i bisogni spirituali del popolo. A ciò si aggiungeva, per i ceti più alti, la necessità di liberarsi di una presenza ingombrante, anche a livello politico: i vescovi erano legati così strettamente alla gestione del territorio e le proprietà della Chiesa erano così diffuse da farla sembrare onnipresente.

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Con tutto questo si spiega il fiorire di nuove idee, eresie ed esperimenti tra XII e XIII secolo. L’alfabetizzazione crescente dei ceti urbani e l’affermazione decisiva delle lingue volgari stavano trasformando la spiritualità delle persone, anche grazie alla possibilità per le idee di raggiungere un numero sempre più grande di fedeli; il tutto mentre Roma si dedicava soprattutto alla repressione dell’eterodossia, arrivando forse già troppo in ritardo per garantire l’unità delle istituzioni religiose di fronte alle novità: sono esemplari le esitazioni di papa Innocenzo III prima di approvare la regola del neonato Ordo fratrum minorum di San Francesco.

Francescani e domenicani, ordini religiosi nati rispettivamente nel 1207 e nel 1216, stavano scegliendo una via diversa da quelle prese dalle altre istituzioni religiose fino a quel momento, scegliendo di non isolarsi e di vivere nel tessuto cittadino, stando a contatto con le persone e utilizzandone spesso la lingua.

San Francesco d’Assisi (1182-1226) è la figura chiave di questi tempi: un riferimento per la religione, addirittura un santo, ma anche un autore, grazie al suo Cantico di frate Sole, noto anche come Laudes creaturarum o Cantico delle creature. In esso il fondatore dei francescani (che egli stesso chiamava ioculatores Domini, giullari di Dio, dimostrando di vivere e comprendere appieno lo spirito di cambiamento dei suoi tempi) prega nella sua lingua madre, il volgare umbro; i trentatré versi dell’opera non seguono un metro specifico, ma sono ritmati secondo gli schemi della poesia biblica, della prosa latina medievale e, forse, delle laudes contemporanee.

Francesco dimostra una notevole conoscenza dei riferimenti letterari del suo tempo, piuttosto prevedibile data la sua appartenenza a una famiglia della borghesia mercantile e le frequentazioni aristocratiche di gioventù. Conosceva la letteratura romanzesca francese, dalla quale, oltre alla definizione di ioculatores per i suoi frati, doveva aver colto anche l’idea della povertà come sua amante, sulle scie del pensiero cortese. Gli studiosi collocano la stesura del Cantico di San Francesco tra 1224 e 1226, negli ultimi anni di vita del santo, mentre era tormentato dal dolore fisico e dalla malattia agli occhi.

L’opera comincia con una lode alla potenza di Dio e un pensiero su quanto gli uomini siano indegni di fronte ad essa (et nullu homo ène dignu te mentovare, v. 4); si invita poi ad adorare il Signore e tutte le sue creazioni (cum tucte le tue creature, v. 5), dal sole alla luna, dalle stelle ai quattro elementi, tutti belli e importanti per la vita degli uomini. Solo alla fine si torna sull’uomo: Dio va lodato per chi perdona e per chi soffre (quelli ke perdonano per lo tuo amore et sostengo infirmitate et tribulatione, vv. 23-24), per proseguire con nostra sora morte, inevitabile (nullu homo vivente po’ skappare!, v. 28) per distinguere chi ha vissuto secondo la Sua volontà da chi ha vissuto nel peccato. La chiusura contiene un ordine del santo: è necessario servire Dio, sempre con humilitate.

Il titolo alternativo di Laudes creaturarum per il Cantico non è casuale: nella seconda decade del Duecento il tipo di componimento detto lauda o laude cominciava a diffondersi in Umbria e in Toscana; avrebbe conosciuto maggiore fortuna insieme al movimento dei flagellanti di metà secolo e sarebbe rimasto in voga fino al XV secolo. Al tempo di Francesco consisteva in brevi cantilene in lasse monorime destinate a un pubblico non pratico di latino. Entro pochi decenni cominciò a stabilizzarsi un canone, anche per mano di autori celebri come Jacopone da Todi.

Proprio come una laude il Cantico di San Francesco è curato sul piano formale, ma privo di artifici retorici complessi. Non deve sembrare infatti accidentale la scelta di scrivere in volgare per un autore che avrebbe potuto certamente farlo in latino, ma non dobbiamo illuderci che gli strati più bassi della popolazione si esprimessero allo stesso modo nella loro quotidianità. Francesco evitò i caratteri più strettamente dialettali dell’umbro, trovando alcuni compromessi proprio con il latino senza rendere il suo linguaggio incomprensibile per i ceti inferiori. Quel che ne nasce è un volgare tra il mediano e l’illustre, che doveva essere familiare per i lettori dell’Italia centrale del Duecento, contribuendo al successo dell’opera e alla fama del suo autore.

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Il Cantico di San Francesco è un grande esempio di come la primordiale poesia religiosa contribuì a dare una spinta decisiva al volgare, fornendo solide basi per la nascita della lingua italiana. Non bisogna dimenticare la poesia didattica volgare nell’Italia del nord, così come l’incredibile fucina che fu la corte siciliana di Federico II e le produzioni di natura amorosa e civile tra Toscana ed Emilia. Era, d’altronde, il secolo di preparazione per quella che sarebbe stata la rivoluzione definitiva del volgare italiano, quella trecentesca delle tre corone fiorentine.

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Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole e di pace. Sono specializzato in storia medievale, insegno lettere alle medie. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

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