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Lo sterco del diavolo? Il denaro nel Medioevo

Articolo della newsletter n. 51 - Giugno 2025

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Come i grandi storici ci hanno insegnato, studiare la circolazione di beni e denaro ci permette di aprire finestre interessanti sul passato. Provare a ricostruire l’idea del denaro e della ricchezza nei secoli del lungo Medioevo europeo può dirci molto sui nostri antenati, e come al solito anche su di noi.

Sappiamo che la concezione medievale di ricchezza, nella maggior parte dei luoghi e almeno fino all’XI secolo, fu solidamente fondata sulla proprietà terriera, e che la moneta occupava un ruolo meno rilevante della terra da questo punto di vista. Ma questo, contrariamente a quanto molti si ostinano ancora a credere, non significa che il denaro non avesse una certa importanza nell’economia. Lo dimostra, ad esempio, l’unica grande riforma monetaria medievale che ci insegnano a scuola, quella di Carlo Magno, attuata tra il 774 e il 795, che ristabilì il monopolio pubblico del conio (un diritto che l’imperatore concedeva a città e a nobili possidenti) e introdusse un sistema monometallico basato sull’argento. La moneta fondamentale e di uso quotidiano divenne il denaro, mentre il soldo (che valeva 12 denari) e la lira (da 20 soldi) fungevano da unità di conto.

È comunque un dato di fatto che i commerci nel nostro continente, specialmente allontanandosi da Costantinopoli, non fossero l’attività in assoluto più redditizia. Le vie di comunicazione romane erano quasi ovunque cadute in disuso, numerosi centri erano stati abbandonati, molte aree divennero poco sicure: ne conseguì che, a parte rare eccezioni, ogni regione, contea, villaggio, tendeva a poter produrre solo il necessario per la sopravvivenza. Anche perché i surplus entravano nei magazzini dei signori. In un contesto simile, in cui gli scambi si riducevano quasi per chiunque al minimo indispensabile, la circolazione del denaro non poteva che essere ridotta.

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All’Alto Medioevo è legata una delle controversie più classiche della storiografia: lo studioso belga Henri Pirenne cercò di posticipare la caduta della civiltà romana in Europa occidentale di quasi duecento anni, sostenendone la forte continuità nei regni romano-germanici. Sarebbe stata solo l’espansione islamica nel VII secolo, con la conseguente crisi dei commerci tra le sponde del Mediterraneo, a sancire il vero declino dell’Età Antica e l’inizio dell’economia altomedievale, basata appunto proprietà terriera e caratterizzata dalla stagnazione dei commerci. Nonostante la maggior parte degli storici ora rigetti la tesi, basandosi su fonti di varia natura, le parole di Henri Pirenne e il suo atteggiamento critico sono ancora oggetto di profonde riflessioni.

Con il progressivo ripopolamento delle città e la ripresa del commercio, dopo il XII secolo, il denaro assunse un ruolo più centrale. Le fiere internazionali, come quelle di Champagne, divennero luoghi fondamentali per gli scambi e per la circolazione monetaria. In parallelo, le città commerciali più importanti rilanciarono la monetazione aurea: monete come il fiorino di Firenze (che fu la prima città medievale europea a coniare una moneta di uso corrente in oro nel 1252) o il ducato di Venezia iniziarono a diffondersi ben oltre i confini locali, segnando l’inizio di un’economia più dinamica e interconnessa. Il commercio a lunga distanza, i prestiti internazionali, la nascita delle banche, resero il denaro uno strumento imprescindibile.

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L’ascesa del denaro fu accompagnata da un’intensa riflessione teologica e morale. La Chiesa, da sempre impegnata a predicare sui confini tra ciò che era lecito e ciò che non lo era, si trovò a dover affrontare le nuove esigenze del mondo urbano e commerciale, non potendosi comunque sempre schierare contro di esse. L’usura, cioè il prestito a interesse, era condannata come peccato grave, in quanto implicava un guadagno ottenuto senza lavoro, semplicemente sfruttando il tempo, che dovrebbe appartenere solo a Dio. Tommaso d’Aquino, nella sua Summa Theologiae, ribadiva che il denaro, essendo sterile, non poteva generare altro denaro senza violare la giustizia naturale.

Ovviamente gli usurai erano tra i soggetti preferiti di moltissime rappresentazioni infernali. Per Dante sono seduti sul sabbione infuocato del settimo cerchio, ricoperti da una pioggia di fiammelle e costretti all’infamia di portare borsa di denaro appesa al collo con disegnato lo stemma della propria famiglia; nell’affresco dell’Inferno di Taddeo di Bartolo nella collegiata di San Gimignano l’usuraio è sdraiato a terra e un demone dal volto caprino gli sta accovacciato sopra defecandogli in bocca. La condanna morale si legava a una visione del denaro come fonte di corruzione, avidità e ingiustizia, una minaccia costante alla salvezza dell’anima. Non è un caso che circolasse l’espressione latina pecunia est stercus diaboli, “il denaro è lo sterco del diavolo” (che dà il titolo anche a un libro di Jacques Le Goff sul tema, del 2010).

“Male dare e mal tener lo mondo pulcro / ha tolto loro”
Divina Commedia, Inferno, canto VII, vv. 58-59. Con queste parole Virgilio spiega a Dante che le anime davanti a loro sono quelle di prodighi e avari, ai quali i rispettivi peccati (male dare e mal tenere) hanno tolto l’accesso al mondo pulcro del Paradiso.

Eppure, nella pratica, il sistema economico aveva bisogno di credito. Le esigenze di artigiani, mercanti e persino monarchi avevano portato alla nascita di soluzioni finanziarie sempre più sofisticate: lettere di cambio, compagnie mercantili, tecniche di doppia scrittura. Molti prestiti venivano mascherati da transazioni commerciali per eludere la condanna ecclesiastica. La stessa Chiesa divenne uno dei principali attori economici dell’epoca: le donazioni dei fedeli, le decime e le rendite fondiarie garantivano una ricchezza ingente agli ordini religiosi, ai monasteri e alle diocesi. Con il dogma del Purgatorio, sistematizzato nel XIII secolo, si aprì un nuovo spazio per conciliare il bisogno materiale di fondi con la promessa di salvezza, trovando una scappatoia teologica: i vivi potevano ottenere grazie spirituali per i defunti attraverso offerte e messe di suffragio. Questo meccanismo alimentò un’economia devozionale dove il denaro diventava ponte lecito tra il terreno e l’ultraterreno (Jacques Le Goff raccontò anche questo processo, nel 1981).

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Nel corso di questi cambiamenti, il profitto smise progressivamente di essere visto solo come colpa, ma come possibile ricompensa per l’attività economica, purché moderato e giustificato (e in parte versato in elemosine). In questo contesto si inserisce anche il ruolo degli ordini mendicanti, in particolare francescani e domenicani, che furono tra i più attivi nel riflettere sul rapporto tra ricchezza e salvezza. I francescani, pur predicando la povertà assoluta, si trovarono presto a gestire conventi, scuole, ospedali e attività di vario tipo.

Il Medioevo fu dunque segnato da una tensione costante tra condanna e necessità. Se da un lato il denaro era accusato di corrompere l’anima, dall’altro era indispensabile per costruire cattedrali, finanziare pellegrinaggi, sostenere opere caritative. Spesso i mercanti devoti cercavano di redimersi attraverso donazioni, mecenatismo o fondazioni. Anche il concetto di carità, o caritas, fu centrale nell’equilibrio medievale tra economia e fede: il denaro poteva essere utilizzato come strumento per il bene comune. L’economia del dono, che si intrecciava con l’etica cristiana, vedeva la ricchezza come responsabilità e opportunità di salvezza, per sé e per gli altri. Il denaro era un attore silenzioso ma influente, che metteva alla prova la coerenza della Chiesa, la potenza delle città, l’inventiva dei mercanti e la coscienza dei filosofi. Non era semplicemente uno strumento di scambio, ma soprattutto un simbolo delle numerose sfaccettature delle società medievali.


Illustrazione di Marialuce Giardini

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Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole e di pace. Sono specializzato in storia medievale, insegno lettere alle medie. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

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