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Capire gli scontri in Francia dopo l’uccisione di Nahel

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A inizio luglio 2023, in Francia, si dava notizia di circa 3.693 persone poste in custodia dalla polizia, di cui 1.149 minorenni. Ed è noto il peggioramento della situazione. C’è il presagio di una stretta alla libertà sui social, capo d’accusa più facilmente imputabile alla diffusione di queste “ribellioni giovanili’” che apre a uno scenario a dir poco cupo. Questa la situazione dopo che l’omicidio del diciassettenne Nahel da parte di un agente durante i controlli a un posto di blocco, a Nanterre, ha dato il via a una serie di proteste che hanno infuocato la Francia.

Per chi assisteva ai fatti, c’è un’ambiguità delle parole, e del loro senso per la prassi, che ancora non abbiamo risolto. Parlare di “rivolta” esprime l’immagine del saccheggio, dell’incendio, della distruzione, dell’assalto alle gendarmerie per impadronirsi delle armi (fatto che nel 2005 non si era verificato). La “protesta” è invece una pratica che reclama qualcosa di pubblico. La protesta cerca il conflitto, non lo scontro. È nel suo senso discorsiva, pubblica, inclusiva. Vuole essere riconosciuta. La compenetrazione di “protesta” e di “rivolta”, nell’èmeutes (termine tra l’altro inviso alla sinistra francese, che ne vede una depoliticizzazione strumentale) del 2023, si presta alle più varie letture.

Con una buona dose di generalizzazione, le interpretazioni più diffuse tra i giornali italiani si possono inquadrare o sulla preminenza dei fattori socio-economici, o su quella dei fattori culturali. Insomma come variazioni del dibattito tra identity politics, e class politics; o tra la preminenza della sovrastruttura oppure della struttura, per dirla con altre parole.

Sul fronte dei giornali conservatori, gli incendi e gli scontri hanno fatto da pretesto per rilanciare il mito dell’ineluttabilità dell’integrazione fallita, l’essenzialismo culturale di chi ‘non vuole’ o ‘non può’ integrarsi, la radicalizzazione islamista (ignorando sia l’appello alla pacificazione di alcuni imam, sia il dato che le macellerie e gli esercizi islamici sono stati colpiti ‘in eguale misura’ come gli altri), perfino puntando il dito contro l’engagement di quei famigerati filosofi di sinistra degli anni ’70, le cui critiche al laicismo avrebbero contribuito a una presunta “tolleranza degenerativa”.

Sul versante di quel che rimane della sinistra, il panorama è stato molto più eterogeneo, e ha dato vita a una sorta di riproposizione farsesca del dibattitto del marxismo francese degli anni Cinquanta, quando non si capiva bene come conciliare economia e cultura, teoresi e prassi, marxismo ortodosso e fenomenologia. Insomma, alcuni opinionisti italiani, di fronte ai dati che hanno mostrato l’enorme partecipazione dei giovani (soprattutto minorenni) hanno anzitutto accusato l’idea stessa di “generazione”: a che pro continuare a utilizzare le astrattissime categorie di Gen-Z, o millennials, che fanno di tutta l’erba un fascio, quando è del tutto evidente che le condizioni sociali dei giovani disoccupati che vivono nelle periferie sono del tutto diverse da chi studia, e frequenta prestigiose università? I giovani non sono uguali, questa è la prima lezione delle banlieue, e va tenuta ben presente.

Altri opinionisti si sono sforzati di dire che, per comprendere la ‘partecipazione’ dei petit francesi, i fattori economici sono una condizione necessaria, ma di certo non sufficiente. È insomma fondamentale riconoscere che, come ben denunciava Le monde nel 2022, l’inflazione ha portato a un calo dei consumi alimentari del 4,6%, un aumento dei prezzi alimentari del 13,2%, il rincaro degli affitti; è giusto citare la disoccupazione, il precariato, l’emarginazione; ma ciò non basta – dicono. Non basta ricorrere alla nozione di “classe sociale” né tantomeno alla dicotomia sociale marxiana per spiegare la rivolta; ma serve parlare di cultura. E questo è a suo modo interessante, e ci riporta agli anni Cinquanta, perché perfino Karl Marx era ben lungi dall’aver definito due categorie monolitiche, ipostatizzate, univocamente risolte in fattori economici: borghesi e proletari, come se fossero pedine sempre uguali da giocare ogni volta sul tappeto della produzione della storia. In breve, la stessa categoria di “classe”, volendo pur citare Marx, presuppone un’affinità dei modi di vivere, un senso di appartenenza che precede il raggiungimento della propria consapevolezza, cioè la consapevolezza di quella «comunità reale» che solo allora si fa prassi politica. Ma ciò detto, fa strano che oggi, nel 2023, per parlare di classe sociale ci si debba ogni volta smarcare dalle accuse di riduzionismo economico, e prendere sul serio presunte critiche che non sono altro che il frutto di storture interpretative.

Non è inconciliabile al discorso economico un discorso sull’appartenenza, ai valori, alla cultura – e a leggere alcuni opinionisti sui grandi giornali questa sembra davvero una scoperta teoretica sensazionale (paragonabile alla svolta dei comunisti occidentali che, durante lo stalinismo, avevano messo una pietra sopra il marxismo ortodosso); ma in un certo senso, ancora ci riporta al problema della categoria di “generazione”.

E torniamo così alla domanda centrale. Qual è il problema delle terze e quarte generazioni francesi? Potrebbe essere, in una parola, valoriale, e in questo modo si realizzerebbe un ponte tra fattori socio-economici, e quelli culturali; una buona conciliazione dei due poli.

Parlare di valori non vuol dire scadere in teorie psicologistico-esistenziali, né fare appello agli stati mentali privati: il valore è infatti il senso di appartenenza. A una comunità, a una cittadinanza. Ma questa appartenenza non può essere ridotta, come scrive Giovanni Perazzoli in un articolo che per altri argomenti è molto condivisibile, a un problema meramente politico e disgiunto dai fattori economici. Come se la cittadinanza non portasse con sé degli attributi economici, sociali, linguistici, di significato. Come se il senso di appartenenza a una comunità fosse svincolato dalle pratiche dei consumi, dalle preferenze culturali “popolari”, da abitudini dettate da precise occupazioni, da certi mezzi pubblici, certi orari di lavoro; da una busta paga, dai problemi di un quartiere, da certe aspettative sulla propria vita e quella dei propri figli, dal razzismo sistematico. Anzi, la cittadinanza è un problema economico, proprio perché politico.

Il problema delle banlieue, allora, può essere generazionale e valoriale nella misura in cui, posto che esistono dei valori riconosciuti, occidentali, che nessuno mette in discussione (il valore della posizione reddituale, il valore di chi può permettersi un certo stile di vita e di consumo); le nuove generazioni delle periferie ne sono escluse, e più o meno consapevolmente si mobilitano in tal senso. C’è un tradimento del patto del cittadino con lo stato, c’è il tradimento della mobilità sociale; ma c’è soprattutto la coscienza di essere esclusi dal sistema di valori che per la prima generazione di immigrati non poteva essere avvertito, perché l’aspirazione si attestava sul livello della povertà assoluta. Se si accetta questa lettura, allora per gli immigrati dalla seconda generazione in poi, per coloro che, integrandosi, hanno accettato il senso dei valori e dei disvalori occidentali, il problema diventa la povertà relativa. Povertà relativa che li emargina.

L’acquisizione di un valore, la sua incorporazione, il senso di appartenenza, viene così a ridefinirsi sulle circostanze che mutano, sulle abitudini (‘occidentali’) che si apprendono, e sulle aspirazioni che, in questo senso, si adattano per pretendere di più, protendere alla promessa di un riconoscimento; che tuttavia è stata sistematicamente smentita, e di cui ora paghiamo le conseguenze.

Articolo di Linda Dalmonte

Redazione

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