Il regista Pablo Larraìn, adesso nelle sale con Neruda, nel 2012 ha voluto raccontare, attraverso il film No – i giorni dell’arcobaleno, un periodo fondamentale della storia recente del Cile, il suo paese natio. Nell’anno 1988 infatti Augusto Pinochet, in seguito a forti pressioni internazionali, è costretto a convocare un referendum per legittimare il proprio regime dittatoriale. Il quesito referendario è molto semplice: qualora vincesse il Sì, el general rimarrebbe in carica fino alla sua morte; se invece dovesse prevalere il No, Augusto Pinochet sarebbe costretto a farsi da parte e si impegnerebbe ad attuare la transizione del paese verso la democrazia.
Il Sì parte nettamente in vantaggio e infatti Pinochet è convinto di stravincere, altrimenti questo referendum, molto probabilmente, non lo avrebbe mai convocato, nonostante sia previsto dalla costituzione cilena. Larraìn si concentra prevalentemente sulla campagna pubblicitaria del No. Tale schieramento ha a disposizione 15 minuti settimanali di visibilità televisiva, ma non insiste proponendo agli spettatori gli episodi di violenza, gli omicidi e le torture operate dal regime; l’idea del leader della campagna, il pubblicitario René Saavedra, è quella di mostrare scene di allegria, gioia e felicità, le quali si oppongo al clima di paura e angoscia caro alla dittatura. Lo slogan della campagna infatti è Chile, l’alegria ya viene, tormentone musicale perfettamente riuscito.
Pinochet prende il potere attraverso un golpe militare l’11 settembre del 1973, due settimane prima che la nazionale di calcio cilena affronti l’Unione Sovietica nella partita d’andata dello spareggio di qualificazione per i mondiali tedeschi. I calciatori cileni rientrano dalla trasferta in terra straniera forti di un buon pareggio a reti inviolate; a novembre si giocherà il ritorno a Santiago del Cile, nel grande Estadio Nacional.
Nel frattempo però questo tempio del calcio cileno ha perso le sue funzioni abituali diventando un vero e proprio campo di prigionia, dove il regime di Pinochet confina qualsiasi oppositore. Lo stadio viene ripulito in tempo per l’arrivo delle due nazionali, quella di casa e quella sovietica. L’URSS però all’aeroporto di Santiago non atterrerà mai. I sovietici infatti rifiutano il golpe di Pinochet e per protesta non mandano la propria nazionale a giocarsi lo spareggio in casa del nemico. Il risultato è segnato, è un 2-0 a tavolino che, di fatto, permette ai cileni di potersi presentare all’assalto della Coppa del mondo dell’estate del 1974.
Pinochet però non si accontenta della vittoria a tavolino ed esige che la propria nazionale faccia un gesto simbolico: il 21 novembre del 1973 i cileni infatti sono regolarmente in campo e segnano, a porta vuota e senza avversari, un gol che in qualche modo riesce comunque a passare alla storia, ma lo fa dalla parte sbagliata.
Nessuno dei giocatori cileni si oppone alla squallida sceneggiata voluta dal generale. Eppure all’interno di quella nazionale c’è un uomo, prima che un calciatore, il quale potrebbe fare un gesto eclatante, un atto di ribellione. Lui è Carlos Caszely, ma per tutti in Cile è El rey del metro quadrado, il re dell’area di rigore. Caszely all’epoca gioca nel Colo-Colo, la più grande squadra cilena che qualche mese prima arriva in finale di Copa Libertadores contro gli argentini dell’Independiente. Quel viaggio dei campioni cileni ad Avellaneda, periferia di Buenos Aires, è reso celebre perché al seguito della squadra non c’è un personaggio qualunque, ma il presidente del paese Salvador Allende, eletto democraticamente qualche anno prima. Le immagini ritraggono l’abbraccio fra Allende e Carlos Caszely, perché el rey del metro quadrado non ha mai fatto mistero di pensarla in un certo modo.
La nazionale cilena prima di partire per la Germania e giocarsi il mondiale vuole ovviamente essere ricevuta da Augusto Pinochet, che nel frattempo ha instaurato il suo regime militare. Quando el gèneral tende la mano destra al più forte calciatore cileno di sempre, lui, el rey del metro quadrado, mantiene le proprie mani intrecciate dietro la schiena. No, Carlos questa volta non può chinare la testa agli ordini del dittatore cileno, come al contrario fece qualche mese prima partecipando alla partita-farsa contro i sovietici. La prima partita del Cile ai mondiali del ’74 è proprio contro i padroni di casa della Germania Ovest.
I tedeschi vincono 1-0 e Caszely si fa espellere. Il problema non diventa l’espulsione in sé (tra l’altro il primo cartellino rosso della storia dei mondiali) quanto piuttosto la squalifica successiva, poiché nella seconda partita i cileni devono giocare sempre contro la Germania, ma quella dell’Est. La stampa del regime si scatena: chiaramente Caszely si è fatto espellere perché non vuole giocare contro i suoi amici, i comunisti della DDR. Il Cile viene eliminato dal mondiale al primo turno e Carlos, il calciatore più forte nonché fiero oppositore del regime, diventa il perfetto capro espiatorio. El rey del metro quadrado tornerà a indossare la maglia cilena a ridosso degli anni ’80 perché prima si ferma a giocare in Europa, dove con i suoi gol delizia il campionato spagnolo indossando le maglie di Levante e Espanyol.
Il Cile però senza di lui non si qualifica ai mondiali del ’78, i quali si disputano in un altro paese sudamericano macchiato dal sangue di una dittatura: l’Argentina di Jorge Rafael Videla. Il calcio cileno è allo sbando così Carlos torna a indossare la camiseta roja a furor di popolo: l’anno successivo arriva in finale della Copa America (torneo in cui viene eletto miglior giocatore) e ritorna a calcare i campi di calcio spagnoli, poiché grazie ai suoi gol porta il proprio paese al Mundial dell’82. La relazione fra Caszely e la Coppa del mondo, però, non è certamente fortunata. Questa volta sbaglia il rigore decisivo contro l’Austria e il Cile viene nuovamente eliminato al primo turno.
È il destino dei più grandi e Carlos, a questa sorte, non si sottrae: amato e venerato nell’ascesa, etichettato come il principale responsabile durante la caduta. Anche questa volta, il calciatore più amato e allo stesso tempo temuto del paese, ha fallito nel momento decisivo. Quelle spagnole restano le ultime recite di Caszely con la maglia della roja e pochi anni dopo appende le scarpette al chiodo.
La campagna pubblicitaria del partito del No per il referendum del 1988, come ha giustamente sottolineato Pablo Larraìn, mostra prevalentemente scene di allegria, sentimento che prevarrebbe in tutti i cileni qualora, finalmente, riuscissero a liberarsi di Augusto Pinochet. Le torture e i soprusi del regime non vengono però taciuti in quei pochi minuti televisivi che gli oppositori hanno a loro disposizione. Alla vigilia del 5 ottobre 1988, data del referendum, i telespettatori andini ascoltano la voce di una donna. La signora Olga Garrido è una delle migliaia di persone innocenti torturate dai militari del regime.
La donna enuncia chiaramente come queste scene di violenza rimarranno sempre nella sua memoria e non potranno mai essere dimenticate. «Por eso, yo voy a votar que no». La telecamera a questo punto stacca e inquadra a pochi passi dalla donna un uomo di bassa statura, con i capelli folti e un paio di baffoni. È facile riconoscerlo, è proprio el rey del metro quadrado, Carlos Caszely. Anche lui voterà no. Perché i sentimenti della donna, sono i suoi stessi sentimenti. Perché l’allegria di Olga è la sua stessa allegria. Perché da domani il Cile potrà diventare una democrazia libera, sana e solidale.
Ma anche e soprattutto, «porque esa linda señora es mi madre».
Il No vincerà con il 55,99 % dei voti, Pinochet sarà costretto a farsi da parte.
Chile, l’alegria ya viene.