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«La cartolina» non è il solito libro sull’Olocausto

Con il suo romanzo Anne Berest dimostra che siamo arrivati a un’epoca nuova per le riflessioni intorno all’Olocausto: non più incredulità, ma consapevolezza.

6 minuti di lettura

La cartolina di Anne Berest (edizioni e/o, 2022) è un libro costruito con cura, amore e rigore degno di un saggio storico, intorno alla ricerca familiare e umana della protagonista. Lélia riceve nei primi anni Duemila una cartolina quasi dozzinale, come se ne trovano in ogni negozio di souvenir della capitale francese, con una foto dell’Opéra Garnier di Parigi. A sconvolgerla sono le firme sul retro, che corrispondono ai nomi dei due nonni e di due zii vittime dell’Olocausto. Lélia, confusa e offesa da quello che le sembra un errore delle poste o un brutto scherzo, la fa sparire nel suo archivio personale. È sua figlia Anne, una ventina d’anni dopo, a riprendere la cartolina in mano per risolvere la questione e ricostruire le vicende di cui sua madre non ha mai voluto o saputo parlare.

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A differenza di molti altri libri dello stesso genere, i primi capitoli non disorientano, perché l’autrice non mostra mai la presunzione di sapere già tutto, anzi, decide di trasmetterci ogni momento di sconforto che prova di fronte ai vicoli ciechi, o di disorientamento e dolore per ciò che emerge lungo il percorso. Ci sentiamo quasi inopportuni quando sbirciamo nelle vite di Ephraïm e di Emma, di Myriam e di Vicente, di Jacques e Noémie, e di altri personaggi che come loro provano a cavarsela in quel turbinio di eventi, che fanno il possibile per proteggere se stessi, le persone che amano o ciò in cui credono. Dall’Europa orientale a Parigi, passando per altre tappe fondamentali e iconiche, seguiamo le impronte della famiglia Rabinovitch e di chi si lega a loro. Come pochissimi altri libri, questo apre uno spiraglio dinamico sull’identità ebraica nel corso del Novecento, senza trascurare elementi critici, come le amnistie (e amnesie) che mantennero i collaborazionisti al loro posto anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le difficoltà di collocarsi in una Francia che cercava di riscoprire la sua identità, le ingenuità di chi si sentiva integrato e che finì tradito dai compaesani. «Il romanzo dei miei progenitori è anche una ricerca iniziatica sul significato della parola ebreo in una vita laica», ha dichiarato l’autrice, a caccia di radici di cui fino a un certo punto non aveva nemmeno sentito il bisogno.

I Rabinovitch vagano per l’Europa come moltissimi, senza prevedere nulla di ciò che sarebbe successo entro pochi anni. Vogliono solo la stabilità: una casa, un lavoro, mandare in porto qualche progetto, e si costruiscono dei sogni identici a quelli dei francesi, e forse proprio questo li rende così vivi per Anne e per noi. Perché il punto di forza non è solo la cura con cui ogni personaggio è ricostruito, tale da darci l’illusione di conoscerli in carne e ossa; non è solo la sensazione del continuo traballare di ognuno (e non solo di chi rischia la deportazione), l’insicurezza costante con cui tutti sembrano compiere ogni azione. A rendere così bello La cartolina di Anne Berest sono i continui, armoniosi, passaggi dal passato al presente, quando la protagonista si accorge di stare affrontando molti dei problemi dei suoi antenati. Dimentichiamo addirittura la ricerca iniziale nel fascino delle scene che si susseguono come in un film malinconico. Il tutto nella bella e scorrevole traduzione di Alberto Bracci Testasecca.

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Forse non c’è nessuna morale, o forse banalmente La cartolina di Anne Berest è una sola lunga morale. Fatto sta che qualcosa ti rimane dentro, quantomeno una voglia di sapere qualcosa di più dei tuoi antenati, un piccolo «Ma chissà cosa facevano i miei bisnonni nel frattempo?» che ronza nel cervello. Siamo forse arrivati a un’epoca nuova per le riflessioni intorno all’Olocausto. Non più l’incredulità di come sia potuto succedere, ma la consapevolezza di quanto sia facile cascare in certe trappole quando si creano determinate condizioni. Anne Berest non colpevolizza nessuno, l’esito è inevitabile ma ci rimaniamo male lo stesso quando i treni partono carichi di umani trattati come bestiame, perché ci accorgiamo di quanto poco sarebbe bastato a salvare quattro vite – o cento, o mille, o milioni. Ecco, forse più che una storia familiare questo piccolo gioiellino di libro è un richiamo alla responsabilità, di quelli che si legano a noi, alle nostre radici, pagina dopo pagina.

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Daniele Rizzi

Nato nel '96, bisognoso di sole, montagne e un po' di pace. Specializzato in storia economica e sociale del Medioevo, ho fatto un po' di lavori diversi ma la mia vita è l'insegnamento. Mi fermo sempre ad accarezzare i gatti per strada.

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