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TOPSHOT - Yellow vests (Gilets jaunes) protestors stand behind a burning barricade during a protest against rising oil prices and living costs as night falls on the Champs Elysees in Paris, on November 24, 2018. Security forces in Paris fired tear gas and water cannon on November 24 to disperse protesters. Several thousand demonstrators, wearing high-visibility yellow jackets, had gathered on the avenue as part of protests which began on November 17, 2018. / AFP / Bertrand GUAY

Chi sono davvero i «Gilets jaunes»? Genesi e prospettive di un movimento della strada

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3 minuti di lettura

Nell’era dell’interazione 2.0 le scintille della protesta si accendono sul web, nutrendosi e proliferando tra le molteplici ed indefinite identità dei canali sociali. Poi, però, alla prova dei fatti, è sempre la rete umana, la massa scesa in strada, a contare e a fornire una voce e un corpo tangibile ad istanze altrimenti astratte e vaporose. La strada non dimentica, la strada accoglie e raccoglie le tracce del tempo presente. Lo ha capito bene, nelle ultime settimane, il Presidente francese Emmanuel Macron, vedendo sfilare per le vie della Repubblica orde agguerrite di concittadini vestiti di gilet catarifrangenti.

Molto più della polemica sull’opportunità o meno di un omaggio a Pétain nel quadro del centenario dell’armistizio; molto più dell’ “Affaire Benalla”, scandalo estivo venuto a scuotere le coscienze dei francesi, ancora estasiati e storditi per la vittoria ai Mondiali. È quella dei Gilets janues la sfida decisiva del mandato di Macron, quella che, tra le continue richieste di dimissioni, minaccia di farne cadere il governo. Ad un mese dal boom di firme per la petizione online da cui tutto è partito, proviamo a fare il punto della situazione della vicina Francia.

Priscillia Ludosky ha 33 anni, è di origine martinicana ed abita nella periferia parigina. Stanca del puntuale conto salato dal benzinaio, in primavera lancia su change.org una petizione contro l’aumento delle accise sui carburanti, senza immaginare di arrivare a collezionare, nell’autunno successivo, più di 900mila firme. È lei a diventare volto e portavoce di una contestazione che, dalla fine di ottobre, inizia a configurarsi con un nome, un simbolo, una missione.

In primo luogo, la ferma opposizione all’incremento del prezzo medio della benzina, avvicinatosi a 1,60 euro al litro, e del diesel, arrivato a quota 1,50 euro al litro. Un esborso considerevole, seppur esiguo rispetto alla situazione italiana. Questo rincaro rientra nel quadro di una misura ecologista promossa dall’esecutivo francese, finalizzata innanzitutto a cambiare le abitudini degli automobilisti, incitandoli ad optare per gli autobus o la metropolitana per recarsi al lavoro. I Gilets jaunes, tuttavia, non sono necessariamente anti-ecologisti ma rappresentano, almeno nel loro nucleo originario, quella porzione di popolazione che, abitando nelle remote periferie, non dispone di frequenti ed efficienti collegamenti tramite i mezzi pubblici. È la Francia delle classi medie, delle pensioni modeste, dei piccoli imprenditori e dei loro dipendenti che, risiedendo lontano dal centro, è costretta ad usare la macchina e vede il proprio portafoglio alleggerirsi ogni giorno al distributore.

A fronte dell’adesione esponenziale alla causa, le proteste si sono ampliate, volgendosi contro la generale politica fiscale del governo e rivendicando il miglioramento del potere d’acquisto delle classi medie e popolari. Le élites «parlano di fine del mondo, noi invece parliamo di fine del mese» lamenta un “Gilet jaune” in una testimonianza raccolta dal settimanale francese L’Obs. Intravedendo nel fenomeno un terreno fertile di consenso, i partiti di opposizione, dall’estrema destra di Marine Le Pen alla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, hanno subito spalleggiato il movimento, sorto come apolitico e non strutturato. Un’iniziativa trasversale, dunque, che alla fine, però, rischia di giovare solo all’avanzata populista del Rassemblement National (ex “Front National”).

Dalle prime azioni isolate e simboliche in paesini di provincia, la manifestazione si esprime con una rapidità crescente ed una forza all’apparenza indomabile. Il tutto da sabato 17 novembre, quando il corteo conquista Parigi e in parallelo le principali località della Repubblica, invadendo perfino il parcheggio del parco divertimenti Disneyland. Allora arrivano i lanci di lacrimogeni, la polizia in tenuta antisommossa, centinaia di feriti, due morti nei blocchi stradali al Sud. Gli episodi di violenza si perpetuano anche il 24 novembre sugli Champs-Élysées, in un raduno non autorizzato che pare marcare in modo indelebile la frattura tra il governo e il suo popolo dimenticato. Mentre simili comitati sorgono anche in Belgio e in Italia – qui, tuttavia, in un’accezione marcatamente filogovernativa e contestatrice della gestione delle autostrade – ci si chiede se tali rappresentanze raggiungeranno mai gli estremi livelli d’azione dei cugini francesi.

Eppure, spiega Priscillia Ludosky, la soluzione per conciliare il malcontento della gente e l’emergenza ecologica, sarebbe a portata di mano: non di certo incrementando la tassazione bensì adottando misure come la progressiva soppressione dei veicoli diesel, da sostituirsi con auto ibride ed elettriche non troppo costose, nonché la produzione di biocarburanti e la sperimentazione tra le aziende del telelavoro al fine di ridurre il traffico automobilistico. Insomma, il compromesso tra giustizia sociale ed ecologismo sarebbe possibile.

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Se in un primo momento l’Eliseo pareva impassibile di fronte alle proteste provenienti dalle rues, si manifestano ora i primi segnali di apertura. E mentre il Ministro dei Trasporti Élisabeth Borne annuncia un investimento di 2,6 miliardi finalizzato ad aumentare la frequenza dei treni per i pendolari, il Ministro dell’Economia e delle Finanze Bruno Le Maire promette un calo della tassazione, ricordando a tutti come la prima risposta a simili fenomeni risieda nell’ascolto e nella considerazione. Da Bruxelles, invece, parlando dopo la mobilitazione nazionale del 17 novembre, Macron è intervenuto sulla necessità di fornire alle classi medie e popolari una «risposta economica, sociale ma allo stesso tempo culturale e di buonsenso». Lo stesso Presidente ha poi aggiunto che «ritrovare il dialogo con le classi medie e popolari è una sfida per chiunque sia chiamato a governare».

Un dialogo necessario, per tentare di salvare una presidenza iniziata appena un anno e mezzo fa. Un dialogo necessario, per evitare di consegnare la Francia alla minaccia nazional-populista da cui si è salvata in extremis nel 2017. Un dialogo necessario, in un Paese che per un’insurrezione nazionale, partita proprio per l’annosa questione delle tasse, ha scritto la storia.

Jennifer Marie Collavo


Immagine in copertina: www.ouest-france.fr

Redazione

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