Dal 6 al 9 giugno i cittadini dell’Unione Europea saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento Europeo, il quale a sua volta eleggerà la Commissione che sostituirà l’attuale, guidata da Ursula Von Der Leyen. Si tratta di un momento decisivo e che, insieme alle elezioni nazionali che di volta in volta andranno a mutare la composizione del Consiglio, contribuirà certamente a definire gli equilibri dell’Unione nei prossimi cinque anni. Il parlamento e la Commissione sono infatti due organi decisivi per il funzionamento delle istituzioni, ed hanno un ruolo cruciale nel definire i passi dell’Unione in alcuni ambiti in cui questa ha la competenza esclusiva come l’unione doganale, la definizione delle norme in materia di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la politica monetaria per i paesi dell’area euro, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca e la politica commerciale comune. Tuttavia, l’influenza delle istituzioni comunitarie non finisce qui, poiché anche nelle aree in cui l’Unione agisce di concerto con il livello nazionale, come nel caso delle politiche sociali, dell’ambiente, dell’energia o dei trasporti il peso di Bruxelles ha un forte impatto, a volte esagerato dal dibattito pubblico, altre minimizzato a seconda soprattutto della piccola convenienza. Ma allora perché non si è parlato di tutto ciò durante questa breve e desolante campagna elettorale?
Tutto quello di cui non abbiamo parlato
Le elezioni europee, forse mai come questa volta, sono diventate l’occasione per pesare il consenso interno, soprattutto in un paese, come l’Italia, che sui sondaggi fonda ormai buona parte della propria democrazia. In un momento cruciale per il destino dell’Unione il dibattito non ha nemmeno sfiorato i grandi temi su cui le istituzioni dovranno concentrarsi nei prossimi anni, se vogliono sopravvivere senza entrare in quello stato vegetativo che Emmanuel solo pochi anni fa attribuiva alla NATO, ma che presto potrebbe contagiare anche Bruxelles. Non si è parlato di come effettivamente procedere con una profonda revisione dei trattati che preveda, ad esempio, l’abolizione del diritto di veto. Non si è parlato di quanto il budget a disposizione delle istituzioni sia ormai inadeguato ad affrontare la concorrenza di giganti come Stati Uniti e Cina.
Non si è parlato di quanto siano necessari investimenti nel campo della ricerca, o di come, e se, le regole fiscali a cui sembra si sia destinati a tornare siano davvero la strada giusta per il futuro. Non si è parlato, soprattutto, del futuro dell’Ucraina nell’Unione, della guerra che continua a imperversare e di come realmente si intenda uscirne. Non si è parlato nemmeno dell’Africa e delle politiche migratorie che andranno, gioco forza, adottate in futuro per sfuggire non solo ad un inverno demografico che sta per calare sul continente e non solo sulla vecchia e malandata Italia, ma anche per garantire un’integrazione efficace di chi già vive e lavora qui. Non si è discusso, ed è indicativo forse della direzione che sta prendendo il continente, di un’Europa a due velocità come strumento alternativo ad una revisione dei trattati, ovvero di un ulteriore integrazione in poche, ma cruciali aree di policy portata avanti da chi ritiene che questa sia la strada da seguire, lasciando indietro chi a questo progetto crede forse solo fino ad un certo punto.
Non si è discusso dell’allargamento in corso nei Balcani, che da troppo tempo è un processo in stand by solo in parte, e per poche settimane rivitalizzato dal processo di adesione, solo simbolica, iniziato dall’Ucraina subito dopo l’aggressione russa. Non si è parlato davvero, e ciò non stupisce, della necessità di creare un’alternativa credibile all’Alleanza Atlantica non tanto e non solo perché questa rappresenta la decadenza, l’ipocrisia e il carattere tardo imperialista dell’Occidente come qualcuno sottintende, ma perché le elezioni statunitensi di novembre potrebbero restituirci un disimpegno americano questa volta reale, o quanto meno confermeranno un’inaffidabilità percepita di chi quest’alleanza la anima e la sostiene, ancora maggiore di quanto già non sia ora. È bene ricordare in questo senso, che per molti paesi un’alternativa alla NATO è vitale, un’assicurazione sulla vita contro un rischio di aggressione che non importa quanto sia percepito e quanto invece sia reale. A volte non fa differenza. Senza che l’Unione Europea sia in grado di garantire questa alternativa, dovrebbe essere semplice comprendere che le possibilità di integrazione siano solo limitate.
PD e sinistra: dove sta la bussola?
È stata una campagna elettorale priva di qualsiasi tipo di contenuto, costruita, anche a sinistra, su slogan e dichiarazioni che poggiano generalmente sull’idea che ci sia bisogno di più Europa, di un’Europa più solidale e dalle regole fiscali più lasche, senza però spiegare davvero che cosa questo significhi. Gli ultimi quattro anni, durante i quali a causa della pandemia prima e della guerra poi, i cordoni fiscali si sono allentati, hanno portato alcuni investimenti ed alcune riforme i cui frutti si mostreranno in futuro, ma anche tanti investimenti sbagliati che peseranno sotto forma di debito “cattivo” sulle spalle delle generazioni future per anni. Per non parlare poi dell’ambiguità, ma qualcuno direbbe pluralità, delle posizioni interne alla sinistra – in particolare al PD – sulla guerra, bene espresse nei punti a questa dedicati nel programma elettorale. L’unica domanda che potrebbe sorgere a un elettore del Partito Democratico riguarda l’opportunità di ospitare come non iscritti nelle liste del partito candidati divisivi, in un ambiente che non ha bisogno di aprire ulteriori faglie rispetto a quelle che già lo contraddistinguono da sempre.
A destra la battaglia è sui toni
Per i partiti più importanti di pesarsi di fronte all’elettorato, soprattutto a destra e nella coalizione di governo e di conseguenza rimodulare aspirazioni e toni del discorso pubblico. La Lega, in forte calo nei consensi, soprattutto rispetto al 2019, quando superò il 30%, ha puntato su una campagna dai toni molto forti, polemici, razzisti e populisti. Sono comparsi, ovunque, manifesti elettorali che puntano forte su un messaggio su tutti: cambiare l’Europa prima che questa cambi noi. Prima, quindi, che il velo integrale diventi la normalità nelle nostre città, prima che qualcuno costringa il popolo italiano ad abbandonare la sua secolare tradizione culinaria e la sostituisca con insetti di vario tipo. Sembra quasi che la Lega voglia prendersi lo spazio occupato da FdI quando ancora, all’opposizione, puntava su questi toni, senza comprendere però il rischio che per l’elettore il partito di Matteo Salvini, per altro in bilico nel suo ruolo di segretario, diventi solo un doppione. FdI sta invece puntando tutto sul consenso personale di cui gode Giorgia Meloni. Se possibile, i contenuti sono ancora più vaghi di quelli proposti dalla Lega, ma in questo momento la Presidente del Consiglio sembra potersi permettere di procedere sulla cresta di un’onda che non accenna a scendere, a quasi due anni dalle politiche che le hanno consegnato le chiavi di Palazzo Chigi. Infine, Forza Italia sembra abbia invece provato a smarcarsi dagli alleati di governo, provando a recuperare consensi tra gli elettori di centrodestra spaventati o comunque diffidenti verso i toni che caratterizzano proprio Lega e FdI. Una strategia che sembra stia pagando, dimostrando che il partito possa sopravvivere e trovare un suo spazio anche dopo la morte del suo fondatore, Silvio Berlusconi. Un’operazione non scontata solo un anno fa, e alla quale va dato al ministro Tajani il giusto merito.
Cinque anni in emergenza
Accanto a questi, ed al PD, si sono visti anche una serie di piccole liste, accozzaglie non ben definite di sigle che apparentemente hanno ben poco in comune, esperimenti che probabilmente avranno vita breve e l’ormai consueto, drammatico teatro messo in scena dai liberali, o centristi che dir si voglia. Una delle liste che sembrava faticare, ma che invece si presenterà in tutte e cinque le circoscrizioni è quella guidata da Michele Santoro, Pace Terra Dignità. Un piccolo partito nato dall’evidente disappunto del giornalista di fronte alla postura occidentale verso la Russia di Putin, verso la quale si vorrebbe promuovere un’operazione di pace che, invero, poco differisce da quelle proposte da altri nella vacuità dei contenuti.
L’Unione si è ritrovata, negli ultimi anni, a dover fronteggiare una serie di emergenze che nessuno, nel caso della pandemia, e solo alcuni, nel caso dell’invasione dell’Ucraina avrebbero previsto quando ormai cinque anni fa si insediò la Commissione guidata da Ursula Von Der leyen. La Commissione ed il Parlamento hanno dovuto destreggiarsi in una serie di equilibrismi, politici ancor prima che economici, tutt’altro che semplici ma sui quali hanno pesato molte ombre, alcuni fallimenti e pochi successi – chi scrive pensa. Tra le prime, si potrebbero citare gli accordi, segreti, con le aziende farmaceutiche durante la pandemia o le trattative con alcuni paesi sul rispetto di principi fondamentali dell’Unione come la libertà di stampa o il rispetto dello stato di diritto. Tra i secondi, certamente l’inadeguatezza dimostrata nel rispondere all’aggressione russa, i continui tentennamenti nel fornire aiuti, gli scandali riguardo alla corruzione nelle istituzioni. Tra gli ultimi, invece, la tutt’altro che scontata capacità dimostrata nel rispondere con stimoli e politiche fiscali flessibili alla pandemia, aprendo al debito comune ed investendo con forza e con decisione, a volte perfino forse troppa, sulla transizione verde.
Ciò che ci aspetta
I sondaggi dicono che il tasso di partecipazione alle elezioni continuerà a calare in Europa occidentale, mentre aumenterà man mano che si guarda più ad est. È difficile immaginare ora il Parlamento che si formerà, anche a causa di leggi elettorali diverse di apese in paese (questa sì una stortura difficile da comprendere). Probabilmente, sarà a trazione conservatrice, ma l’equilibrio interno alle formazioni di destra è tutto da scrivere. I socialisti sono dati in calo, ma potrebbero ancora una volta rivelarsi determinanti.
Visto il ritmo con cui la storia ci ha messo di fronte a cambiamenti epocali che in alcuni casi, come la guerra in Ucraina più che la pandemia, ancora molti faticano a comprendere, è inutile cercare di fare previsioni su quello che sarà il futuro dell’Europa. Il trend, ora come ora, è quello di un appiattimento. Forse si è davvero di fronte ad uno step decisivo ma complesso, anche se si sta pur sempre parlando di un esperimento, quello europeo, ancora troppo giovane e proprio per questo imperfetto. Se i tempi e gli eventi costringeranno l’Unione a crescere più in fretta di quanto avrebbe fatto altrimenti sarà l’unico vero tema della legislatura che ci aspetta.