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Diventare scrittori: «Les mots» di Jean-Paul Sartre

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13 minuti di lettura

Jean Paul Sartre ha cinquantanove anni quando pubblica Le parole. Siamo nel 1964 e per molti è già uno scrittore alla frutta, un filosofo sorpassato.

Les mots (pubblicato in Francia da Gallimard e in Italia da Il Saggiatore) è il racconto autobiografico di un’infanzia e insieme di un’ossessione: «Ho iniziato la mia vita così come la terminerò senz’altro: in mezzo ai libri».

On a raison de se revolter - Une biographie politique de Jean Paul Sartre
On a raison de se revolter – Une biographie politique de Jean Paul Sartre

Nella villa del nonno Charles c’è un grande salone: le pareti sono foderate da una spessa biblioteca, i volumi sono numerosi. Sartre ha solo quattro anni ma non resta indifferente alle bizzarre mattonelle parlanti capaci di intrattenere gli adulti per ore. La madre e il nonno amano infatti sedersi in poltrona, soprattutto la sera, in compagnia di un libro. Qualcosa di magnetico vi è nascosto all’interno. Forse un codice segreto seppellito negli strani ghirigori d’inchiostro. Il piccolo Sartre osserva di nascosto le pagine e ha una folgorazione: è l’incontro con le parole. Sono dunque loro a parlare. Dotate di una voce muta intrattengono gli adulti fino al limitare del sonno. La biblioteca stessa – di dimensioni mastodontiche per un bambino di pochi anni – pare una gigantesca muraglia costruita da solide fondamenta. Ma il mistero delle strane mattonelle rivestite in pelle antica è presto disvelato: dalle pagine apparentemente mute sgorgano racconti, avventure marine, leggende di pirati e filibustieri. È l’incontro con la lettura: il nascere della scintilla.

Un libro, qualsiasi libro, diviene il rimedio contro la solitudine che lo morde: bambino solitario e viziato dalle cure materne – ingannato, fin dalla più tenera età, sul suo aspetto fisico – impara a leggere per sfuggire al vuoto, alla noia delle lunghe giornate in compagnia degli adulti. La lettura e dunque la letteratura sono l’antidoto contro l’assenza dell’altro, del simile. Non ci sono amici nella vita di Sartre, non compagni di scorribande, ragazzetti con cui giocare nel parco, ridere, improvvisare imboscate e corse a mosca cieca: «mi avvicinavo a loro, mi sfioravano senza vedermi. […] Avevo incontrato i miei veri giudici, i miei contemporanei, i miei pari, e la loro indifferenza mi condannava». La lettura riempie il vuoto, protegge dalla meschinità. Letteratura è il mondo ritrovato, terra nuova dove poter vivere. Unico mezzo per «raggiungere l’assoluto».

Due copertine per Les mots di Jean Paul Sartre
Due copertine per Les mots di Jean Paul Sartre

Gli amici arriveranno con l’ingresso alle scuole elementari. Così la disciplina, lo scontro con l’autorità. Sartre, però, è sicuro di se stesso, delle sue incrollabili passioni. La lettura scoperta in giovane età gli permette il passaggio all’altro lato della barricata. Si crogiola nella propria corazza convinto di possedere un dono: inizia a scrivere. Lo fa per capriccio, per orgoglio, per scimmiottare il nonno, uomo di lettere, dotto professore. Scrivere gli fornisce l’illusione di percepire meglio la realtà, di comprenderla nel profondo: riempie grandi agende ma poi si annoia in fretta, il cervello si inceppa, le idee non sgorgano più. Allora per diletto, per darsi un tono, ricopia lunghi paragrafi dal dizionario Larousse. L’importante è riempire la pagina, mantenere alta l’immagine di sé: studente precoce, futuro scrittore, promesso alla fama e all’ammirazione. Il sogno si spezza presto.

Il nonno lo avverte sul pericolo più grande: la scrittura è una buona cosa ma non dà da mangiare. Vivere di sola arte è impossibile. È opportuno scegliere un lavoro solido, una professione che permetta, un giorno, di servirsi della letteratura a proprio piacimento, senza l’angoscia di pubblicare a tutti i costi. Il percorso è già disegnato, non c’è margine di scelta. Sartre è dunque destinato alla prestigiosa École Normale Supérieure. Il suo futuro si veste di termini chiave: lo studio, il concorso e poi la grande meta: sarà professore. Certo, la scrittura esisterà sempre ma i romanzi saranno relegati al tempo libero. Nessuna gloria dunque. Nessuna immortalità. Il nonno lo condanna così alla mediocrità dell’insegnante, ad una vita umile e semplice, deprivata da qualsiasi vagheggiamento. Il destino è segnato: Sartre lo capisce bene. Già si vede a scribacchiare brevi compendi critici, articoletti di poco conto. Lavorerà con applicazione, sarà un uomo di cultura – forse – ma più di tutto un semplice, modesto, professore di periferia. Ammazzato dalla noia ancora prima di cominciare a vivere. Davanti ai suoi occhi si stende placida la carriera dello scribacchino minore, del critico che vive di arte altrui perché incapace di produrne una propria.

Come ribellarsi alla parola paterna, all’istanza genitoriale?

La guerra è già insita nella scrittura. Scrittura che, per Sartre, è prima di tutto battaglia, sfida contro se stessi: non si scrive per compiacere il prossimo, per glorie future. Sartre abbandona l’infanzia, cresce. Lo schiaffo della realtà s’accompagna a una prima lezione di maturità.

Se si trova il coraggio di intraprendere una professione così folle ed assurda – la scrittura altro non è che un «lavoro nero» – si deve essere coscienti del pericolo e delle fatiche. Le pagine odoreranno di «sudore e di pena». Ogni parola prodotta contro di sé si farà carico di altre battaglie. Sono le guerre contro gli altri, dunque contro il mondo: il padre morto precocemente, il nonno dittatore, la madre dalle facili lusinghe. Scrivere contro se stessi significa scrivere contro tutti.

Sartre et Simone de Beauvoir, 6 dicembre 1981 - Observer's archive
Sartre et Simone de Beauvoir, 6 dicembre 1981 – Observer’s archive

L’infanzia raccontata ne Le parole e ripercorsa a ritroso da un Sartre quasi sessantenne non è imbevuta di benevolenza e affetto. È piuttosto un’epoca di inganni, di falsi miti, di facili superstizioni. La tromperie – il raggiro – si annida ovunque: nei libri divorati da bambino popolati da storie inverosimili, nella crudeltà del nonno, nei falsi complimenti della madre. Sartre è cresciuto credendosi un bello, un eletto. Solo più tardi scoprirà l’inganno materno. La donna camuffava le sue stesse fotografie ritoccandole con le matite colorate. Correggeva lo strabismo, dipingeva immaginifici boccoli biondi.

Sartre ora è adulto. Scrittura è sangue e sudore. Molta pena. Il corpo è tozzo, la bocca tumida, lo sguardo sbieco: la realtà non lascia scampo.

Si scrive per ubbidire ad una malformazione, a un «bernoccolo» cresciuto in tenera età proprio al centro della testa. La scrittura è un’ossessione, una malattia, peggio, un’irrinunciabile passione che gioca a nascondino con la morte.

Chiudersi in casa, trincerarsi dietro cattedrali di parole è un modo per sfuggire alla vita, per comprenderla forse – in questo il giovane Sartre ci aveva visto giusto – ma più di tutto è un mezzo per perdersi. Per desiderare di morire. Tuttavia, seduti al proprio tavolo, chini su una pagina sudata e ingloriosa, ci si perdona della propria esistenza. Per un attimo si fa pace con i fantasmi. Al di là di qualche vanaglorioso sogno infantile la scrittura permette sprazzi di insperata realtà.

Ma il bozzolo non è mai guarito. A distanza di cinquant’anni dalle esperienze di gioventù, le parole esistono sempre. La scrittura non muore, non si esaurisce.

L’età adulta e il sopraggiungere della vecchiaia obbligano ad una resa dei conti. I detrattori di Sartre si sfregheranno le mani. Il meglio, ci insegna, è sempre dopo: «farò meglio oggi, e talmente meglio domani». Difficile rileggersi, sfogliare le opere scritte nel passato. Difficile riconoscersi in un percorso da cui si è preso le distanze per proseguire verso il nuovo. È il viaggio verso il meglio: la verità.

La scrittura non redime. La cultura non salva gli esseri umani, non giustifica la loro presenza sulla terra. Tuttavia è un prodotto dell’uomo, luogo in cui ci si proietta e dunque ci si riconosce. Si è soli accecati dal proprio specchio critico. Denudato dai propri difetti, piegato sotto il peso di parole da cui non riesce a spremere una goccia di bellezza, l’uomo convive con la propria insoddisfazione, è vittima dell’incompletezza.

Sartre et Michel Faucault 1972
Sartre et Michel Foucault 1972

Dopotutto, suggerisce Sartre, non è possibile disfarsi di una nevrosi: non se ne può guarire. Soprattutto se quella nevrosi caratterizza la totalità del soggetto, se, cioè, l’uomo è le sue nevrosi, incarna la verità del proprio desiderio imperfetto.

I giorni della vecchiaia sono duri. I volumi da completare attendono sul tavolo da lavoro. Ora dopo ora. La vita va avanti, così la scrittura, le pubblicazioni. Il tarlo non si esaurisce. Forse la lieve infelicità nasce proprio dalla sfida che ci si è imposti: «tante volte mi sono chiesto se non stessi giocando al chi perde vince». Abbassarsi fino al fango, scendere nei bassifondi, criticarsi, calpestarsi per essere in qualche modo creditore di speranza: attendere di ricevere, attendere un plauso che forse è dovuto, che forse non giungerà mai.

La «follia» tanto amata da Sartre – dunque la scrittura e le gioie segrete provate nel produrre opere – è ciò che l’ha salvato, che l’ha protetto dalle facili seduzioni dell’élite. Nessuna cattedra universitaria, nessun posto privilegiato al Collège de France, un premio Nobel rifiutato. Ciò che conta è la responsabilità, l’indipendenza. Non si può scrivere liberamente se si fa parte di un’istituzione. Non c’è spazio per il soggetto, non immunità dai facili contagi di pensiero. «Mi sono interamente dedicato alla mia opera al solo scopo di salvarmi interamente».

Ma una volta che si è riposta la propria «impossibile salvezza» in un vecchio ripostiglio, senza altri desideri, senza seduzioni, cosa rimane? Risponde Sartre: resta solo «un uomo fatto di tutti gli uomini» tuttavia «li vale tutti, chiunque lo vale».

Ilaria Moretti

 


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