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Milano attraverso la poesia amorevole di Elio Pagliarani

10 minuti di lettura

Non si può prendere in considerazione l’idea di visitare o trasferirsi a Milano senza aver letto Elio Pagliarani, forse perché questa sfaccettatura quasi sconosciuta della poesia è, come suggerisce il critico letterario Andrea Cortellessa, catalogabile sotto alla parola pseudonarcissus: attraverso i suoi occhi ci obbliga a dare una definizione della città tanto nota.

Elio Pagliarani nasce nel 1927 a Viserba, Rimini. Dopo aver conseguito la laurea Scienze politiche a Padova, si trasferisce negli anni Quaranta a Milano, per poi spostarsi a Roma vent’anni dopo.
Fondatore della rivista Periodo Ipotetico, lo ricordiamo anche come redattore dell’Avanti e come critico teatrale per Paese Sera; muore a Roma nel 2012.

«Quando andò a Milano, sui diciott’anni, scrisse o disse, con linguaggio più o meno rilkiano, che andava a cercare le ‘parole d’oro’: le trovò di ferro, e poi si accorse che erano proprio quelle, di ferro o acciaio, che andava cercando». Questa autodefinizione offertaci dall’autore ci mostra la visione di un uomo colmo d’inesauribile tenerezza (che ricorda, a tratti, l’innocenza umana di Sandro Penna); conscio di ciò, egli si danna per nascondere quella “pietà soggettiva” che però trapelerà in ogni singolo verso scritto dal 1946 al 2005, e a nulla varranno i suoi tentativi di sforbiciare questo sentimento puro che, però, miracolosamente, non stona.

Bisogna parlare quindi di un “Io – personaggio” dalle molteplici forme espressive: prima qualcosa vissuto in prima persona «E questa ragazza che tengo per mano / l’ho presa a noleggio» e qualcosa che sussiste al di là di ogni spiegazione narrativa, che però si tenta quantomeno di presentare attraverso la poesia-cronaca.

Dice Sergio Turconi:

«Per Pagliarani la cronaca è una condizione esistenziale nella quale si esprime la precarietà del destino dell’uomo in una società dove a molti non è data garanzia di sicurezza e stabilità […] Un interesse, tuttavia, che non adisce le zone dei grandi ideali e delle rivendicazioni generali, ma che viene invece riportato ai livelli primari dell’esistenza, alle situazioni liminari tra umano e sub-umano che sono quelle in cui si dibatte appunto l’uomo di massa».

Le rivendicazioni generali come il senso della vita e tutto quello che ne consegue, così presente nella poetica di Pagliarani che sembra necessario inserirlo come parte integrante di un programma universitario di Sociologia: la postindustrializzazione, una Milano che cresce e fa crescere i suoi figli (da nord a sud) e che, da puro sentimentalismo, si trasforma in qualcosa di settoriale, spregiudicato, previo disagio esistenziale. Ma questo percorso è sempre stato censurato volutamente dal poeta, che ha preferito mostrarci piuttosto fase per fase, passando inevitabilmente dall’amore, parola che esisteva già silenziosamente all’inizio di queste righe. L‘amore è per lui una sfera decisamente privata, che mostra ancora una volta per disperazione, da perfetto soggetto inconsolabile.

«Io non ti lascio alibi, ti amo
con la crudeltà necessaria per rischiare
la tua vita perché la mia è in gioco
ma d’istinto ti sei ritratta
dice Luciano che non hai sufficiente
vitalità.
Di misurarti
a petto del mio amore ero certissimo».

È questo estremo amare che porta l’autore a un taglio netto, come donne quando concludono una storia: le vedi lì, sedute dal parrucchiere con sotto il naso una rivista di gossip o di moda, a farsi ispirare. Due ore dopo, sono così diverse che la migliore amica stenta a riconoscerle, ma appena aprono bocca ecco che sono sempre loro.

È questo il caso de La ragazza Carla, poemetto pubblicato nel 1960 dopo una gestazione di ben tre anni. La prefazione dell’autore è molto chiara: «Un mio amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino a lunedì. Ha senso dedicare a quella ragazza questa ‘Ragazza Carla’?»

Carla è infatti una giovane che vive in una zona allora periferica di Milano assieme a sua madre (pantofolaia), sua sorella Nerina e suo cognato Angelo; studentessa delle scuole serali, corso per segretarie, presto trova un impiego in una grossa ditta.

Elio Pagliarani (primo a destra) durante una presentazione de "La Ragazza Carla"
Elio Pagliarani (primo a destra) durante una presentazione de “La Ragazza Carla”

Milano qua gioca da anestetico, la rende incapace di notare le abitudini che di fatto compongono una vita. Ma la vita è per Carla mossa da un unico sciacquo (pre)sentimento: il pudore. «Solo pudore non è che la fa andare / fuggitiva nei boschi di cemento / o il contagio spinoso della mano»: è attribuibile alla ragazza il nome di Marinella, che viveva senza il sogno di un amore e forse le due ragazze non sono poi così distanti: entrambe ci vengono presentate scialbe a loro modo, solo la diciassettenne di Pagliarani è convinta di avere un accenno di maturità, infatti pensa che «Se si diventa grandi quando s’allungano / le notti e brevi i giorni / ecco ci sono dentro»; ma un’aspirante segretaria non sa niente se non al massimo del civettare nel tratto casa-scuola. Lei stessa si stupisce (ed ha solo un accenno!) dell’animalità del sesso di cui pure usufruisce – «si cerca si tocca si strofina» –, e forse col quale poi condanna le giovani sposate, chiamandole “sceme” – ed ecco qui quello a cui puntava il poeta: la rivoluzione femminista. La ragazza non è che un pretesto per introdurre a frasi come “L’utero è mio e lo gestisco io”, così frequenti nelle piazze, soprattutto milanesi, nel famoso anno che cambiò per sempre la figura della donna (positivamente o negativamente, è ancora presto per dirlo). Ma non è che un attimo e Carla torna sui libri, di cui Elio Pagliarani sciorina freddamente alcuni titoli e trafiletti.

Carla conosce alcuni uomini, tra cui Aldo, che hanno per lei un ruolo stravolgente: «Poi Aldo la porta / a vedere i quadri dei pittori, a bere qualcosa / a sentire un comizio, o, più di rado, al cinema». La lascia passivamente stupita la diversità tra uomo e donna, l’uno così sveglio e con gli occhi aperti sul mondo, l’altra ancorata al proprio mero lavoro e alle calze ancora di lana. È lo stesso stupore che però le permetterà di guardare la città con occhi diversi, di farsi uno schema dettato dall’ “io” umano, il tutto con un preludio creato dal prendere coscienza della bellezza, di quella che era stata la sua maestra (allusione omosessuale? Non stupirebbe, visto l’alto tasso di malizia) e con un intermezzo – conclusione però del poema – che vede Carla vestirsi con calze stavolta di nylon ed indossare rossetti, provando rabbia per il sangue maculato a fine mese tra le gambe pallide, che però non la fa più tremare.

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È questo l’inizio del femminismo, scandito da filastrocche con finali amari e privi di morale, che accarezzano l’abbandono dell’infanzia.

«Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere

e diamante sul vetro, svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste

solo vivo scarnendosi al suo tempo
quando ristagna il ritmo e quando investe
lo stesso corpo umano a mutamento».

La poesia di Elio Pagliarani è stata definita da molti neoavanguardista – grazie anche alla sua appartenenza al Gruppo ’63 – ma non è questo che colpisce di più. Si potrebbe dire, invece, che questo poeta è stato capace, attraverso sperimentazioni dettate dall’immediatezza del sentimento, di narrare il normale percorso umano, segnando tutte le tappe della vita e accompagnando con dolcezza, un poco come fanno le infermiere, solo forse con meno coscienza.

Leggi anche:
Il gruppo 63 e la rottura con la tradizione letteraria italiana

Immagine di copertina: Photo by Matteo Vistocco on Unsplash

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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