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Sylvia Plath

L’eredità di Sylvia Plath

Sono opere, quelle di Sylvia Plath, che racchiudono tutte le difficoltà di una vita tormentata. La poetessa americana che, nonostante la dipartita a soli 30 anni, sa ancora ispirare ed emozionare i suoi lettori.

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7 minuti di lettura

Leggere Sylvia Plath è come passeggiare di sera in compagnia di un amico, col pretesto di riaccompagnarlo a casa. Ma poi, arrivati al portone, l’amico si gira e ti dice: «Andiamo, ti accompagno sotto alle finestre di casa tua».

Sylvia Plath nasce a Boston nel 1932. Prima figlia di una coppia di insegnanti, perde il padre all’età di otto anni – lutto che influenzerà la sua attività poetica e femminile – e cresce accanto ai nonni e alle storie che sua madre si inventa per lei e per il suo secondogenito Warren Joseph. Considerata una bambina prodigio e la migliore studentessa dei suoi corsi, vince alcuni concorsi letterari.
All’età di 21 anni tenta il suicidio e, dopo la diagnosi di depressione (che oggi sarebbe stata «disturbo borderline»), accetta di sottoporsi a sedute di elettroshock, dopo le quali sarà necessario per lei reinventarsi, imparando nuovamente a leggere e a scrivere. Dopo alcune relazioni burrascose, nel 1956 conosce il poeta Ted Hughes che diventa presto suo marito e dal quale avrà due figli; è questo il periodo in cui riesce a pubblicare la raccolta The Colossus. Hughes e Plath si separano nel 1962 in seguito all’ingresso di Assia Wevill nella vita del poeta, conosciuta come moglie di un amico, scrittore anche lui. Nelle prime ore dell’11 febbraio 1963, Sylvia Plath porta in camera dei figli latte e pane, spalanca la loro finestra e sigilla la porta. In quanto a lei, decide di chiudere trentuno anni di vita mettendo la testa nel forno e aprendo il gas.

Un mese prima usciva il suo unico romanzo, The Bell Jar sotto pseudonimo per il forte contenuto autobiografico che avrebbe potuto ferire la madre.

Bisogna discernere la Plath persona dalla Plath scrittrice, soprattutto per quanto riguarda il primo ciclo di poesie, che va dal 1957 al 1960: la poetessa attraverso i suoi versi comincia a conoscersi e fare perizie psichiatriche al mondo. Parte dal fondo, dall’osservazione del quotidiano che entrerà in relazione con la sua persona, ma solo poi.

Qual è la nostra colpa quando il soffitto
non rivela crepe da decodificare? quando il lavabo
dichiara di non avere missione più sacra
delle abluzioni corporali, e il telo di spugna
smentisce asciutto d’occultare ceffi d’orchi
nelle sue esplicite pieghe?

È così che Sylvia Plath inizia parlando di gustosi fischi, di richiami per i gufi, di vasche da bagno, e finisce per tramutarli su di sé, dentro di sé, diventando lei stessa l’oggettistica necessaria, l’equipaggiamento utile ai suoi giorni ed alla sua casa, che cambierà così tante volte nel corso degli anni. E si ritrova a cimentarsi nella parola «poeta».

Quel che infastidiva il marito Ted Hughes era la fretta creativa che sempre di più si impossessava della moglie, ed egli stesso racconta:

Una mattina presto, al buio, vidi la luna piena posarsi su un grande tasso che cresce nel camposanto, e le suggerii di farci una poesia. A mezzogiorno era già finita. Fu per me molto deprimente. Ho idea che una poesia non possa ritenersi tale se non è espressa dalle forze che controllano la nostra vita, la più profonda sofferenza e scelta di cui siamo capaci.

Questa fretta arrivò a definire – o forse la stessa Sylvia sulla base di questo costruì la sua persona futura – la sua maturità poetica. Scrive alla madre: «Ogni mattina, quando il sonnifero smette di fare effetto, sono in piedi verso le 5, nello studio col caffè, e scrivo come una pazza: sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro. Roba incredibile, come se la vita casalinga mi avesse soffocata.»

Questi stralci servono al lettore per la comprensione di una metamorfosi totale e definitiva, che si palesa nella sua ultima raccolta, Ariel. La Plath lascia spazio a un’entità impersonale, una donna morta che partorisce un feto vivo, pronto a crescere al di fuori del suo campo visivo. Le rime e le assonanze che avevano caratterizzato The Colossus cessano, è come se il cestello che le conteneva fosse rimasto vuoto. Si fa economia. Al suo posto un senso di arrivo che le permette di controllare il suo prodotto, come scrive Robert Lowell: «il perfetto controllo, come il controllo di uno sciatore che evita ogni trappola mortale finché arriva all’ultimo strapiombo». Questo «big brother» risulta una prevenzione al suicidio, ma allo stesso tempo è come se fosse già accaduto. Regna la tranquillità nella camera mortuaria.

[…] Uovo morto, giaccio
intero
su un intero mondo che non posso toccare,
al bianco, teso

tamburo del mio giaciglio
mi vengono a trovare le fotografie –
mia moglie, morta e piatta, in pellicce anni ’20
la bocca piena di perle
due ragazze,
piatte come lei, che bisbigliano: «Siamo le tue figlie»

Sylvia Plath

La morte di Sylvia non passa inosservata, né è fine a se stessa. Sei anni dopo, Assia Wevill si suicida ingerendo sonnifero e inalando gas, portando via con sé anche la piccola figlia. Anne Sexton, amica della poetessa, muore volutamente nel suo garage inalando monossido di carbonio proveniente dall’auto. Nel 2009, Nicholas Hughes, figlio della coppia Plath-Hughes, si impicca nella sua casa in Alaska. Si dice che la tendenza al suicidio sia ereditaria.

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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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