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«La fine di tutte le cose», ovvero l’inizio della filosofia

13 minuti di lettura

Nel giugno del 1794, Immanuel Kant consegnava all’editore berlinese Biester un breve manoscritto intitolato Das Ende aller Dinge (La fine di tutte le cose), nel quale elaborava una riflessione, lucida e rigorosa, sul significato filosofico dei concetti di fine, di Apocalisse e di Giudizio Universale. La tesi di Kant lì esposta è che di fronte all’idea di una fine di tutte le cose, il pensiero si ritrovi come immobilizzato, fermo «sull’orlo di un abisso da cui non è possibile alcun ritorno»[1] – un abisso del quale, tuttavia, subisce la fascinazione, poiché, come scrive Kant, «non si può smettere di volgere sempre nuovamente in quella direzione lo sguardo»[2]. La fine di tutte le cose rappresenta, suggerisce Kant, uno dei problemi filosofici che la ragione non può risolvere ma che non riesce a fare a meno di porsi.

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Si tratta di un’anfibolia, di un cortocircuito concettuale che nasce dalla domanda irrisolvibile intorno al senso e alla direzione dell’agire umano nel mondo e, con esso, della storia. Se la storia non avesse un senso, se essa fosse nient’altro che un «dramma teatrale senza epilogo»[3], la ragione dovrebbe abdicare all’acosmismo, abbandonando ogni principio che possa direzionarne i fini pratici. Sono questi, in fondo, il problema e la soluzione proposti da Kant: mentre dal punto di vista metafisico, la fine di tutte le cose non può essere pensata – giacché si tratterebbe di concettualizzare un momento in cui il tempo, nel tempo, smette di essere tale, trapassando nell’eternità –, dal punto di vista pratico, tale concetto deve tradursi nello sforzo di trovare un senso alla luce del quale avanzare nell’oscurità del futuro. 

Il problema della storia

Nelle dense pagine che compongono il saggio su La fine di tutte le cose, Kant sembra aver indicato un problema concettuale inaggirabile per chi voglia ragionare intorno al senso e al significato della storia. Il problema metafisico della fine, e in particolare della fine della storia, non è difatti uno tra gli altri problemi che ha sollevato quella riflessione sul divenire universale per cui, da Voltaire in poi, si è voluta utilizzare la denominazione di filosofia della storia: esso è il problema fondamentale attraverso il quale si pone la questione relativa al senso della storia[4].

fine di tutte le cose

Se la storia ha un senso, verso cosa si orienta, in che direzione procede, quali sono, se ci sono, il suo termine e il suo fine, qual è il significato degli atteggiamenti, dei pensieri e delle pratiche degli uomini che in essa agiscono? Tale discorso porta con sé un dubbio ineludibile, ovvero se vi sia spazio nella contemporaneità per questa domanda. Nell’epoca che è stata definita, prendendo in prestito un termine da Cournout, della post-histoire[5], nell’epoca della cosiddetta post-verità, nell’epoca dell’esaurimento delle grandi narrazioni preannunciato dal postmodernismo, sembra che esso debba cadere nel silenzio, lasciando il posto ad una filosofia divenuta, come voleva Wittgenstein, metodologia filosofica, incapace di inquadrare entro uno schema di senso il complesso del divenire storico. Se così fosse, bisognerebbe allora smettere di interrogarsi sulla fine, e con la fine abbandonare anche la sfida che consiste nel cercare un senso alla storia, lasciando che le pagine kantiane, persa la loro attualità, si riducano ad una interessante, ma inevitabilmente datata, questione metafisica. 

Una riflessione su «La fine di tutte le cose» e la crisi ecologica

Tale prospettiva, tuttavia, non rende ragione dei fatti. La crisi ecologica e ambientale sembra aver riportato in auge questo problema, il problema della storia, e con esso quello kantiano della fine di tutte le cose. A ben vedere, difatti, sia negli ambienti più strettamente dediti alla ricerca scientifica, sia in quelli giornalistici e impegnati nella divulgazione, l’ipotesi di una fine della storia, o perlomeno della fine del mondo così come lo conosciamo, è presa in seria considerazione.

Si discute, in riferimento agli sviluppi e alle conseguenze dei cambiamenti climatici attualmente in corso, di una “Terra inabitabile[6]; si immaginano scenari futuri riconsegnati alla “natura” e privati della presenza umana[7]; si parla di una sesta estinzione di massa in previsione per l’avvenire[8]; si cercano di delineare modelli di sviluppo possibili dell’attuale condizione socioeconomica globale[9]. In ambiente francofono, negli ultimi anni ha preso vita una disciplina autonoma, che avanza pretese di scientificità, la collassologia, la quale, pur in forme variamente declinate, si propone di analizzare le cause e le conseguenze del collasso (effondrement) dei nostri sistemi sociale, economico e ambientale, ricavando, a partire dalla consapevolezza di un futuro immaginato come presente, i mezzi per, come si dice, «cambiare rotta»[10]

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Il dibattito sempre più vivo intorno al problematico concetto di Antropocene s’inserisce in parte entro questo contesto. L’Antropocene riattualizza la questione della fine[11]: nella lettura catastrofista che spesso se ne è data, la corsa al superamento dei limiti del pianeta si rivela come pericolosamente proiettata in direzione un punto di non ritorno. L’Antropocene sarebbe, da questa prospettiva, il «culmine dell’annientamento della natura»[12]. Si potrebbe dire prendendo in prestito il titolo di un famoso saggio di Jacques Derrida, che le discussioni sull’Antropocene tocchino spesso toni apocalittici, come accade, certo in forma provocatoria, ma pur sempre significativa, in un recente testo di Eduardo Viveiros de Castro e Déborah Danowski, nel quale troviamo scritto che «l’Antropocene è l’Apocalisse, nella sua duplice accezione, etimologica ed escatologica»[13].

fine di tutte le cose

A ciò si aggiunge che, come ogni discorso che tenti di far propria la prospettiva della fine, il cortocircuito della ragione di fronte all’idea del termine ultimo costringe ad abbandonare il concetto, per ricorrere alla riflessione mediante immagini[14] o, come propone Donna Haraway, alla fabulaspeculativa[15], dove sono le figure mostruose a vivere questo avvenire successivo alla fine del mondo che ora sembra farsi sempre più vicino. 

Una riflessione su «La fine di tutte le cose» e la crisi della modernità

Tutta questa attenzione rivolta al futuro, ad un futuro che, inesorabile e, soprattutto, come uno sviluppo lineare il cui termine già si intravede nel presente, sembra nuovamente preannunciare la fine di tutte le cose, non costituisce la riapparizione odierna del problema della storia, pur in una sua variante significativa rispetto ai modelli classici ai quali la filosofia ci ha abituati? E, soprattutto, questo spostamento del punto d’insorgenza della domanda sulla storia, non chiede di ripensarne a fondo le categorie? Se il concetto di modernità significa anche affermazione di una temporalità umana autonoma[16] – quella della storia e della libertà che conquista la natura – i problemi, teorici e pratici, sollevati dalla crisi ecologica portano alla luce le fragilità di questo paradigma: i sistemi filosofici che hanno preteso inquadrarne il senso non possono più rispondere, ora, a tale esigenza, e vanno perciò riarticolati in maniera nuova[17].

Ecco che lì dove termina la storia, allora, o dove dovrebbe terminare, comincia la filosofia che questo limite – questo confine che come un buco nero sembra inghiottire ogni sforzo del pensiero – deve mettere in parola, articolare, e dire.

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Note:

[1] I. Kant, La fine di tutte le cose, trad. it. E. Tetamo, Torino: Bollati Boringhieri, 2006, p. 8.
[2] Ivi, p. 10. 
[3] Ivi, p.12. 
[4] Come scrive L. Landgrebe, Fenomenologia e storia, trad. it. M. Von Stein, Bologna: Il Mulino, 1972, p. 235. 
[5] Cfr. R. Bodei, Se la storia ha un senso, Bergamo: Moretti&Vitali, 2020, p. 74. 
[6] Cfr. D. Wallace-Wells, La Terra inabitabile, trad. it. D. Zucca, Milano: Mondadori, 2020. Testo che riporta come sottotitolo, significativamente, Una storia del futuro. Per quanto riguarda l’idea della fine del mondo, ripresa nell’ambito della narrazione giornalistica della crisi climatico ambientale, Cfr. J. Franzen, E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica, trad. it. S. Pareschi, Torino: Einaudi, 2020.
[7] Cfr. A. Weisman, Il mondo senza di noi, trad. it N. Gobetti, Torino: Einaudi, 2017. 
[8] Cfr. E. Kolber, La sesta estinzione, trad. it. C. Peddis, Milano: Beat, 2017. 
[9] Cfr. P. Frase, Quattro modelli di futuro. C’è vita oltre il capitalismo? trad. it. C. Veltri, Roma: Treccani, 2019, il cui primo capitolo si intitola Tecnologia ed ecologia come apocalisse e utopia.
[10] Cfr. P. Servige, R. Stevens, Comment tout peut s’effondrer. Petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présents, Paris: Seuil, 2015. Cfr. a proposito anche J. Rasmi, Collasologia. Istruzioni per l’uso, Trieste: Asterios, 2020.
[11] Cfr. G. Pellegrino, M. Di Paola, Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, Roma: DeriveApprodi, 2018, p. 231: «L’Antropocene viene spesso descritto come la fine del mondo – o meglio, la fine di un mondo».
[12] S. Adorno, I limiti del pianeta. Note e appunti sull’Antropocene, in L. Scalisi, C. J. H. Sànchez (a cura di), Fra le mura della modernità. Le rappresentazioni del limite dal Cinquecento ad oggi, Roma: Viella, 2020, pp. 351-366. 
[13] E. Viveiros De Castro, D. Dànowski, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, trad. it. A. Lucera, A. Palmieri, Milano: Nottetempo, 2017, p. 59.  
[14] Come sostiene A. Tagliapietra, Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti, Bologna: Il Mulino, 2017.
[15] D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it. C. Durastanti, C. Ciccioni, Roma: Not, 2019. 
[16] Cfr. M. Fœssel, Après la fin du monde. Critique de la raison apocalyptique, Pari: Seuil, 2012, p. 299.
[17] Cfr. M. Iofrida, Per un paradigma del corpo. Una rifondazione filosofica dell’ecologia, Macerata: Quodlibet, 2019. 

Immagine di copertina: Invisible Cities, Francesco Simeti, 2012

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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