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È possibile immaginare una scuola diversa?

Se lo chiedono Foà e Saudino in «Cambiamo la scuola»

10 minuti di lettura

Chiara Foà e Matteo Saudino sono due insegnanti e il mondo della scuola lo conoscono fin troppo bene. Ne hanno frequentato le aule e assaporato le contraddizioni per la bellezza di vent’anni, e non hanno intenzione di smettere. Lo testimonia la pubblicazione del pamphlet Cambiamo la scuola: per una scuola a forma di persona, che arriva dopo un’altra prova coautoriale datata 2017: Il prof. fannullone. La casa editrice? “Chi fa da sé fa per tre”, che è già tutto dire. Cambiamo la scuola, invece, è edito per Eris Edizioni, e trova posto all’interno di una collana dal nome decisamente emblematico: “strumenti di autodifesa culturale”.

Cambiamo la scuola di Foà e Saudino

Cambiamo la scuola di Foà e Saudino muove da un’argomentazione fondamentale che viene sagacemente imbastita in linea con quello che dovrebbe essere lo spirito guida del pamphlet, dando vita ad un concentrato micidiale di polemicità ed ironia: la scuola della costituzione (quella degli artt. 33 e 34, per intenderci), definita da Piero Calamandrei come «organo costituzionale della democrazia» ha subìto una «mutazione genetica» che ne ha completamente eroso, e fino all’osso, la presupposta democraticità. I valori che animano la costituzione repubblicana, in breve, non trovano più una compatibilità con un modello politico-economico come quello egemone, centrato su una celebrazione del successo individuale che può contare sul supporto narrativo di una melensa quanto patetica retorica della meritocrazia: «il classico dito che nasconde una luna fatta di crescente marginalità, dispersione scolastica, insuccesso formativo». 

Necrologio della scuola della costituzione

Dal baratro sempre più consistente frappostosi tra il diritto allo studio nella sua declinazione costituzionale ed il diritto allo studio nel suo perseguimento reale è sorta così la cosiddetta «scuola dell’Hydra», leggendario mostro a più teste figurante tra le dodici fatiche dell’eroe mitico Eracle. La scuola parcheggio, la scuola azienda, la scuola d’élite, la scuola burocratica: testa dopo testa ci troviamo a fronteggiare i risultati di politiche scolastiche sempre più impazienti di genuflettersi alle sacrosante logiche del mercato. Ma mentre nei mercati s’investe, nella scuola pubblica italiana si taglia; del tutto coerentemente, in fondo, con le leggi più essenziali dell’economia: s’investe solo in ciò in cui si intravede una potenziale fonte di guadagno. E al potere investire su una scuola che diventi luogo di «libertà ed autocreazione» non conviene mica.

Così Foà e Saudino in Cambiamo la scuola ci restituiscono un insegnamento gridato nelle piazze da generazioni di studenti ed insegnanti: loro la chiamano «l’utilità dell’ignoranza che permette ad ogni forma di potere di perpetuare se stessa in modo indisturbato»; «la pigrizia intellettuale che baratta la responsabilità di essere liberi con la comodità di essere sudditi»; «i nostri cartelloni tinti con le bombolette spray invece «non ci fanno studiare perché un popolo di ignoranti e più facile da governare».

Di tutto ciò, in ogni caso, la disastrosa situazione in cui versa l’edilizia scolastica italiana costituisce una triste conferma: i dati pubblicati dal MIUR per l’anno scolastico 2018/2019 testimoniano difatti che «su 40.151 edifici scolastici attivi, 22.000 sono stati costruiti prima del 1970; il 59% degli edifici scolastici ci risulta tuttora privo del certificato di prevenzione incendi e il 53,8% non ha quello di agibilità e abitabilità». Per Foà e Saudino, tale incuria si fa rappresentazione dell’irrilevanza tanto fisica quanto simbolica che la scuola riveste nell’immaginario pubblico e politico. 

Cambiamo la scuola con Foà e Saudino: il paradigma vitruviano

La rivisitazione dei luoghi deputati alla didattica, sia sul fronte meramente estetico che ergonomico, è uno degli obiettivi che si propone il paradigma della scuola vitruviana elaborato da Saudino e Foà come alternativa alla scuola del fare e non dell’essere. La scuola vitruviana è la scuola squisitamente umanista, che si preoccupa di non trasformare i punti deboli dei propri allievi — sia sul fronte “materiale” che delle capacità individuali — in destino; è una scuola che pone al centro l’individuo in quanto biografia, multiverso di significati e contraddizioni che il percorso educativo ha il compito di risvegliare e pacificare.

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La scuola umanista è la scuola del dialogo educativo che ha come obiettivo conoscere e riconoscere la complessità umana, fornendo a chi insegna e a chi studia un potente mezzo di decodifica della realtà e delle persone: ogni essere può tendere al meglio e al peggio, può sbocciare o appassire tra mille contraddizioni. […] Nella crescita incidono il caso, le contingenze e cioè i fatti, gli eventi e gli incontri. Per questo i docenti non devono soffermarsi sui tratti negativi di chi studia, ma osservarne tutti gli aspetti.

Gli autori di Cambiamo la scuola sembrano così ereditare la lezione che Daniel Pennac ci trasmette nel suo indimenticabile Diario di scuola:

Vergogna a coloro che fanno dei giovani più abbandonati un oggetto fantasmatico di terrore nazionale o la mela marcia da rimuovere dal cesto, perché costoro sono la feccia di una società senza onore che ha perduto il sentimento della paternità.

Si tratta, dunque, di scongiurare il rischio che la scuola si trasformi in una cassa di risonanza di quelle criticità ed iniquità che stanno a fondamento di una società come la nostra, ove i privilegi di pochi vengono garantiti al caro prezzo della mutilazione dei diritti di altri. È per questo che la scuola vitruviana mira a recuperare la centralità del dubbio socratico, della dimensione dialogica e della curiosità per incoraggiare un’emancipazione umana che possa finalmente fondarsi sul dispiegamento delle inclinazioni naturali dell’individuo. Ciò perché una scuola inclusiva degna di questo nome può edificarsi solamente nel riconoscimento della singolarità della storia e dei bisogni di ciascuno, presupposti che producono l’urgenza di una rimodulazione delle disuguaglianze di partenza nel segno della «costruzione di un’intelligenza collettiva» che trasformi il gruppo classe non in un reggimento che marcia al passo, ma in un’orchestra che provi la stessa sinfonia — come ci insegna Pennac. Un compito sempre più arduo, in un mondo in cui tendenzialmente si celebra sempre e solo il contributo dei «primi violini».

Cosa significa, dunque, ripensare la scuola? Per i nostri autori significa anche e soprattutto ridiscutere chi e cosa vogliamo diventare, sia come persone che come comunità. Significa comprendere «che non basta proclamare un diritto allo studio universale per far sì che questo si realizzi per tutti». Significa capire che fare scuola è fare politica, che insegnare è un mestiere partigiano e che bisogna diffidare da quegli insegnanti che si fregiano di un’apoliticità che si fa solo «cortigiana di un pensiero unico dominante che cannibalizza ogni ricchezza del possibile, che annulla ogni strada alternativa», che sparge «sale sulla terra per evitare la fertilità della disobbedienza e della diversità». Ma ripensare e cambiare la scuola significa anche, purtroppo e realisticamente, fare a braccio di ferro con una politica sempre più sorda alle esigenze di chi la abita. E questo, sfortunatamente, rischia di creare un cortocircuito non di poco conto.

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Sara Campisi

Classe 1996. La mia vita è un pendolo che oscilla tra la Filosofia e la perdita di diottrie.

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