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Perché il patriarcato non ci vuole brutte?

«Il mito della Bellezza» di Naomi Wolf (Edizioni Tlön, 2022) pietra miliare del femminismo contemporaneo, torna nuovamente sui nostri scaffali grazie al lavoro di Maura Gancitano e di Jennifer Guerra.

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12 minuti di lettura

Quarant’anni dopo dalla sua prima tiratura, Il mito della Bellezza di Naomi Wolf (Edizioni Tlön, 2022) pietra miliare del femminismo contemporaneo, torna nuovamente sui nostri scaffali grazie al lavoro di curatela della filosofa Maura Gancitano e della giornalista Jennifer Guerra.

«Il mito della Bellezza». Archeologia di un testo chiave

Dopo il suo esordio nel 1990, Il mito della Bellezza è giunto in Italia in una pluralità di versioni e traduzioni differenti, spesso partecipi di onerosi tagli e aggiunte, per poi tristemente ridursi a qualche copia superstite venduta nei mercatini d’antiquariato a cifre non proprio universalmente accessibili. Curare una nuova edizione italiana di questo volume deve dunque aver implicato una profonda e controversa opera di ricerca, un confronto serrato tra fonti testualmente e linguisticamente diverse, un’importante ri-significazione e ri-contestualizzazione di una certa concettualità alla luce dei risultati conseguiti dai gender studies negli ultimi decenni. La scelta di abbracciare un compito così oneroso può quindi provenire solo da una grande intuizione: questo testo, che ha giocato un ruolo chiave per la configurazione del femminismo della terza ondata, ha ancora molto da dirci sul futuro di quello a venire. Da qui, la necessità della sua archeologia.

Ciò perché Il mito della Bellezza non parla solo della donna americana degli anni Novanta: parla di ogni donna che almeno una volta nella vita si sia sentita punita o ricompensata per il proprio aspetto, o che abbia percepito che il proprio modo di apparire fosse più importante di ciò che aveva da dire. Parla di ogni donna che almeno una volta abbia vissuto «l’esperienza schizofrenica di essere bella e pratica allo stesso momento», di veder etichettati i propri comportamenti come sessuali anche quando non lo erano, di veder costantemente frainteso quanto espresso con il proprio abbigliamento. Di chi almeno una volta ha avuto la tentazione di arrendersi o si è arresa ad un’ingiustizia che viene presentata come «immutabile, eterna, opportuna, parte di sé come la propria altezza, il proprio colore di capelli, il suo sesso, la forma del suo viso».  Ciascuna di noi, almeno una volta, ha avvertito qualcuno, qualcosa intessere un legame di dipendenza tra il proprio corpo e le proprie possibilità di empowerment e partecipazione sociale. Ed è per questo che, purtroppo, il mito della bellezza, non è mai stato estraneo a nessuna di noi.

Il «terzo turno»

Riguardo la sua genesi, sappiamo che il mito della bellezza nasce come strumento di coercizione sociale a seguito degli intensi processi di industrializzazione del secolo scorso che avevano condotto ad una progressiva erosione della famiglia, del mito della maternità e della brava casalinga come epicentro del valore del valore e dell’identità femminile.

Decade l’incanto esercitato da quella mistica della femminilità – titolo di un saggio di Betty Friedan altrettanto fondamentale per la riflessione femminista – celebrante il mito della perfetta moglie casalinga americana tanto caro alle inserzioni pubblicitarie degli anni Sessanta. Diventano dunque sempre più insistenti le pressioni di un nuovo ceto di donne che, incoraggiate dalla spinta dell’energia femminista, rivendicano di occupare spazi ulteriori al perimetro delle mura domestiche, come il mercato del lavoro. Questo ingresso, però, sarebbe costato caro al capitalismo industriale, il cui equilibrio si erge sulle costanti dello sfruttamento del lavoro di riproduzione sociale condotto gratuitamente dalle donne, sul consumismo insicuro delle casalinghe e sul divario salariale. Non per nulla «ci vorrebbe un economista veramente in gamba per capire che cosa potrebbe mantenere attiva la nostra opulenta economia se il mercato delle casalinghe iniziasse a cedere».

Ma le preoccupazioni delle economie occidentali non si limitano solo a questioni di mercato. Preoccupa soprattutto la pretesa delle donne di occupare spazi professionali prima d’ora abitati solo da uomini, rischiando di ridiscuterne le gerarchie patriarcali di potere. Ma se era vero che negli anni Novanta «la donna media europea con un lavoro retribuito dispone di un terzo in meno di tempo libero rispetto a suo marito», preoccupa anche il fatto che le donne di classe media, per tutelare le proprie possibilità di ascesa professionale, avessero avuto l’intuizione di deputare quei lavori di cura e di riproduzione sociale ad altre donne, e a pagamento.

Ecco che Il mito della Bellezza nasce dalla necessità di imporre alle donne «un terzo turno» che riuscisse laddove i primi due rischiavano già di fallire: sottrarre loro energia per abitare lo spazio pubblico congiungendo subdolamente percezione corporea e possibilità di partecipazione sociale. Nasce come «strumento di coercizione sociale, come arma contro il progresso delle donne».

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La Qualifica Professionale della Bellezza

Come sottolinea Roland Barthes, nella storia dell’umanità il mito ha sempre avuto la funzione di fornire una giustificazione naturale ad un’intenzione storica, affinché il contingente apparisse eterno. Nella storia, come ben rileva Naomi Wolf, «le finzioni sul ruolo naturale della donna non cessano, si trasformano». È per questo che non appena il legame tra valore sociale della donna e vita domestica virtuosa viene messo in discussione, vengono forgiate altre catene, altri lacci. Per ricollocarla celermente entro un’ulteriore spirale di depotenziamento della propria forza intellettuale e delle proprie possibilità di emancipazione, il valore sociale della donna viene ora cucito a al paradigma della bellezza virtuosa.

Naomi Wolf
Naomi Wolf

Il valore che la bellezza aveva precedentemente assunto nel mercato del matrimonio viene così trasferito al mercato del lavoro. Ciò ci mostra che ogni volta che una donna tenta di rivendicare spazi e ruoli eccedenti i margini disegnati per lei dal patriarcato, quest’ultimo, senza difficoltà, è in grado di originare immediatamente un nuovo sistema biologico di casta in cui poterla riposizionare. Il mito non ha a che fare con le donne. Il mito ha a che fare con gli uomini. Istituzionalizzare la bellezza come «condizione per l’assunzione e l’avanzamento delle donne», rendendola una vera e propria Qualifica Professionale è un’ideologia necessaria per il mantenimento dello status quo del potere. Con la bellezza il potere «promette alle donne ciò che il denaro dà agli uomini». Ma è un placebo, un modo di tradurre gli input femminili in «strutture consone e non disturbanti». Per questo, per Naomi Wolf, il valore del mito è politico e non sessuale.

Una questione di specchi

Attorno al mito ruota un universo di corollari e rappresentazioni volte a non consentire alle donne di identificarsi con i problemi reali della loro condizione. Promuove la figura della candida ingénue, ovvero del “non sei bella se ti incazzi, non sei bella se sei sagace, ironica e con la battuta pronta, non sei bella se sei intelligente”. Sotto il mito della Bellezza alle donne è concesso avere una mente o avere un corpo, ma mai entrambi.

Nella cultura patriarcale le donne vengono pretese belle perché «la cultura possa restare maschile», patriarcale. Il culto della Bellezza è un culto che fa solo «prigionieri politici», perché sposta sul nostro corpo, sulla grandezza dei nostri fianchi, delle nostre labbra, dei nostri seni, sul nostro portamento, sulla qualità del nostro cuoio capelluto, su quella della texture della nostra pelle, del nostro abbigliamento i limiti sociali imposti all’esistenza femminile.

Giocheremo uno scacco decisivo a questa impostazione solo quando capiremo che per cambiarla non bisogna cambiare corpo. Bisogna cambiare le regole.

Possiamo sradicare noi stesse e le altre dal mito, ma solo se siamo disposte a cercare veramente delle alternative, e a sostenerle. […] Per la maggior parte della nostra storia, noi donne non abbiamo potuto gestire le nostre rappresentazioni […] Non si vince combattendo per raggiungere il vertice di un sistema di casta, si vince rifiutando di farsi intrappolare in un sistema. Vincerà la donna che si definirà bella e sfiderà il mondo a cambiare, in modo che possa vederla com’è veramente.

Naomi Wolf ci pone di fronte all’urgenza di un unico interrogativo: perché dovremmo permettere a rappresentazioni contrarie al nostro sentire, ai nostri desideri ed aspirazioni di definire chi siamo come se fosse un loro diritto? Vincerà la donna che sarà convinta che è affar suo quello che fa col suo corpo, che non consentirà alle istituzioni di usare il suo corpo contro di lei; che avrà il coraggio di creare una contro-narrazione al mito e di sostenerla; di proporre una «ridefinizione della bellezza che rifletta le nostre ridefinizioni del potere». Vinceremo quando proporremo una «reinterpretazione della bellezza» in chiave «non competitiva e non gerarchica».

Negli anni Novanta, per Naomi Wolf, il futuro delle donne del pianeta sarebbe dipeso da ciò che avrebbero deciso di vedere guardandosi allo specchio. Siete davanti a quello specchio. Voi che cosa vedete?

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Sara Campisi

Classe 1996. La mia vita è un pendolo che oscilla tra la Filosofia e la perdita di diottrie.

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