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Il tentativo di Fredrik Sjöberg di spiegare la rarità

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«Io sono sempre stato interessato agli spazi limitati e ai piccoli oggetti perché, ai miei occhi, sono delle rappresentazioni del mondo. Il mondo è troppo grande per me» rivela Fredrik Sjöberg in un’intervista rilasciata a Venezia, nel 2017, in occasione del festival I boreali. Un mondo immenso, troppo vasto per essere visitato, figuriamoci capito. Sarebbe da centellinare, da bere a piccolissimi sorsi per assaporarlo fino in fondo, come il tè proustiano in cui viene inzuppata la madeleine, con il potere di rendere indifferenti alle vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi gusti e illusoria la sua brevità.

Fredrik Sjöberg, autore-protagonista de L’arte di collezionare mosche (Iperborea, 2015), cerca di riassettare la realtà collezionando mosche. Non è una cosa da tutti, ci vuole una pazienza infinita a sedere perfettamente immobili con un retino in mano, aspettando che passi l’esemplare che si sta cercando. Non è semplice abdicare alla frenesia di un mondo che ci vorrebbe perennemente in corsa. Fermarsi e mettersi in un angolo sulla pista da ballo che è il nostro tempo sembra essere un atto di coraggio. Perché il piacere della lentezza è svanito? «Dove sono finiti i perdigiorno di un tempo?», si chiede Kundera, citato dall’autore stesso.

 Fredrik Sjöberg

In tutta questa grandezza, in questo disordinato miscuglio di esistenza e morte, di sentimenti e lacrime, si sente la necessità di ordinare il mondo in categorie. Non importa quali esse siano, se punte di matite, monete o mosche, come nel caso di Sjöberg. C’è poi il collezionista narcisista, che ha come oggetto della propria collezione se stesso, mosso dal desiderio di essere visto. Se in principio era il verbo, questo era sicuramente esistere. Non ci possiamo forse ritrovare tutti in questa figura, che necessita di un paio d’occhi posati su di sé per poter essere nel tempo e nella realtà?

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Fredrik Sjöberg nomina Lawrence che, ne L’uomo che amava le isole, scrive che esercitare il controllo su qualcosa di insignificante e apparentemente sconclusionato dà un senso di serena euforia, per quanto effimero e struggente. Il controllo è un’illusione, una saponetta bagnata che non riesci ad afferrare. Vogliamo sentirci potenti su qualcosa, dei punti fermi in grado di cambiare la sintassi di una frase, non delle virgole, degli incisi che possono essere spazzati via a colpi di canc.

Una scrittura frammentaria, fatta da un richiamo dopo l’altro, un’eco che attraversa trasversalmente la Letteratura, quella con la elle maiuscola che sopravvive al tempo e alle rivoluzioni, personali o globali che siano, quel porto sicuro che ci accoglie quando il mondo ci schiva.

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Non abbiamo più sulle gambe un volume con il suo profumo inebriante di carta stampata, quanto una serie di fotografie ingiallite, trovate in un vecchio baule. Le guardiamo e, pur non conoscendo le persone che ritraggono, troviamo qualcosa di noi in loro. Questo libro così particolare sembra non appartenere a nessun genere preciso, non è un romanzo ma nemmeno un saggio, e se la letteratura a volte sembra essere divisa in scatole, alcuni testi sono destinati a vagare in uno spazio indefinito, brillando di luce propria. Si tratta di una caratteristica stilistica tipica di Sjöberg, che anche nel suo ultimo libro, Mamma è matta, papà è ubriaco, pubblicato da Iperborea nel 2020, si pone come cacciatore e collezionista non più di insetti ma di vita vissuta.

L’autore rivela che non avrebbe potuto scrivere un libro sugli insetti senza parlare delle persone, perché nessuno è davvero interessato ai primi, mentre tutti siamo attratti dalle seconde. Sono le persone, quindi, ad abitare le pagine. Da Kundera a Chatwin, ma soprattutto René Malaise, con le sue avventurose esplorazioni in Kamchatka e la terribile esperienza del terremoto in Giappone del 1923.

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Arriviamo alla fine della lettura un po’ frastornati, come dopo una lunga chiacchierata a ruota libera tra amici. Chi ha detto cosa? Si è parlato di tutto e di niente. Leggiamo L’arte di collezionare mosche trattenendo il fiato, in attesa di una grande rivelazione. Abbiamo l’impressione che l’autore sia sempre lì lì per svelarci un arcano mistero. Ancora una volta ricerchiamo nella letteratura la risposta alle nostre domande.

Sjöberg vuole dirci che spiegare la rarità è un’arte. Ci vuole tecnica, passione, una maestria incredibile per parafrasarla: un concetto tanto inafferrabile quanto attraente, un valore aggiunto e al tempo stesso una condanna. Non è facile essere rari, essere in preda all’eccezionalità mentre fuori dalla finestra il fiume della quotidianità travolge tutti. Scriverne è altrettanto difficile.

Maria Ducoli

 


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Maria Ducoli

21 anni, bresciana, studentessa di Lingue, civiltà e scienze del linguaggio a Venezia. Dice di voler diventare una giornalista o un'insegnante. O entrambe le cose.

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