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Giornata Internazionale del Teatro: una riflessione sul momento presente

Per la Giornata Internazionale del Teatro, una riflessione su "Finale di partita" di Samuel Beckett e "Il pasto delle belve" di Vahé Katchà

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4 minuti di lettura

In un momento in cui i teatri sono chiusi e dobbiamo ancora rimanere a casa, ci si può domandare come il teatro stesso affronti il tema dell’isolamento forzato. In questa Giornata Internazionale del Teatro, vorremmo ricordare come alcuni autori abbiano già immaginato una situazione analoga a quella attuale.

Anche il teatro affronta la reclusione a suo modo, cercando di evadere attraverso l’immaginazione: a questo proposito possiamo citare l’opera Finale di partita di Samuel Beckett, e Il pasto delle belve di Vahé Katchà.

«Finale di partita» di Samuel Beckett

Composto tra il 1955 e il 1957 in lingua francese con il titolo di Fin de partie e tradotto successivamente dallo stesso Beckett in inglese, la storia descrive uno spezzato di vita dei due protagonisti Hamm e Clov, accompagnati da Nell e Nagg, genitori di Hamm.

I quattro personaggi – i primi truccati di rosso e i secondi di bianco come se fossero pedine di una partita a scacchi – sono rinchiusi in un bunker post-atomico dal quale non possono, e non vogliono, uscire. Hanno a disposizione solo due finestre dalle quali osservare la landa desolata che li circonda fuori dal bunker, uno stanzino per la cucina e uno per il bagno, oltre alla stanza principale dove si muovono i personaggi.

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Hamm è un uomo anziano, costretto a stare su una sedia a rotelle. Viene accudito da Clov, giovane che invece si muove ed esegue gli ordini. Nell e Nagg, invece, sono chiusi in due cassonetti poiché non hanno più le gambe, perse durante un viaggio sul Lago di Como prima del disastro di cui non si parla mai.

Il continuo ripetersi del tempo

In questa rappresentazione non c’è un vero sviluppo di trama, poiché Beckett mostra la ripetitività della loro vita dentro questo spazio ristretto, senza mai poter scappare. L’unico suono che scandisce il tempo è la sveglia, che suona all’inizio, a metà e alla fine. Accompagna i continui desideri di evasione di Clov, il quale fatica a scappare dal bunker poiché ha paura di cosa accadrà agli altri una volta che se ne sarà andato.

I movimenti e i dialoghi dell’opera sono continui e ripetitivi, ritornano sempre e non cambiano mai. Come in tutte le opere di Beckett, la simmetria ha una grande importanza: mentre Hamm è fermo, sulla sedia a rotelle, al centro della stanza, Clov cammina per la stanza e non si ferma mai. Ognuno, poi, è dipendente dall’altro: Clov non riesce ad andarsene poiché dipendente da Hamm, che dipende da Clov, perché può dargli il suo calmante, e dai suoi stessi genitori, seppur non li sopporti.

Nel momento in cui Nell e Nagg si lasciano andare, morendo, Hamm si domanda se non sarebbe ora di porre fine anche alla sua vita. Rinchiuso in quella stanza non ha senso continuare a vivere e morendo permetterebbe a Clov di andarsene. Non riuscirà, però, a togliersi la vita, continuando l’ennesima ripetizione della sveglia, del calmante, del “giro del mondo” e del sonno.

giornata internazionale del teatro
Samuel Beckett

Il «giro attorno al mondo»

Hamm richiede a Clov di portarlo attorno alla stanza, rasentando i muri. Vuole toccare gli unici confini che li dividono dal resto del mondo distrutto e inabitato, spostandosi il più possibile dal solito centro a cui è costretto: un momento “diverso”, fuori dalla quotidianità.

Tutti i personaggi, con le loro mosse e le loro parole, giocano una partita per evadere dalla solita ed incessante routine che li fa impazzire, cercando quindi di andare avanti, di uscire da quel bunker vivi o morti. Cercano, quindi, di affrontare il nulla che occupa quel bunker in cui sono rinchiusi, distraendosi con le stesse cose: la sveglia, il giro, il quadro posto al contrario; la sveglia, il giro, il quadro posto al contrario; la sveglia, il giro, il quadro posto al contrario…

«Il vecchio finale di partita, finito di perdere»

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«Il pasto delle belve» di Vahé Katchà

Le Repas des fauves è un testo ambientato nel 1943, scritto da Vahé Katchà nel 1960. Una cena tra amici per il compleanno del padrone di casa si trasforma in una camera di consiglio dove giudici e imputati si mescolano nell’angoscia di dover trovare una via d’uscita.

Durante la cena si sentono dei colpi di pistola: due ufficiali tedeschi giacciono morti in strada, immediatamente il comandante della Gestapo decide di prendere due ostaggi per ogni appartamento. Il proprietario di casa è il libraio di fiducia del comandante e per questo gli viene concesso di scegliere, insieme ai suoi ospiti, chi dovrà seguire i soldati per essere ucciso. A questo punto sulla scena inizia la vera e propria caccia al più meritevole di morte, ovviamente ognuno dice la propria non risparmiandosi in perfidia ed egoismo.

La stanza chiusa che apre alle verità umane

Sebbene non sia tecnicamente il nodo scatenante, la stanza chiusa è fondamentale in questa trama. L’impossibilità di scappare dalla decisione porta alla vera e propria crisi nervosa dei protagonisti che rivelano la loro natura più intima. Tutti cercano un modo per salvarsi partendo dal chiamare conoscenti nella Gestapo fino a provare a convincere la moglie del padrone di casa a sedurre il comandante, tutto invano. Qualcuno deve morire.

La spada di Damocle pende sulla stanza minacciosa e pur di evitarla ogni personaggio corre affannato alla ricerca disperata di un motivo per cui lui è degno di vivere, ma chi è più degno di vivere di altri?

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Locandina di La cena delle belve
Fonte: teatro.it

Il teatro che racconta il tempo presente

Se con Samuel Beckett ci troviamo in un futuro distopico senza alcuna speranza nell’avvenire, con Vahé Katchà abbiamo un anno specifico e sappiamo anche che un futuro ci sarà, che la guerra arriverà a una conclusione.

Ne Il pasto delle belve il tema della chiusura non è più il vuoto di Finale di partita, ma è il pieno dell’umano. Gli uomini non sanno come comportarsi in una situazione tra la vita e la morte, specialmente se hanno la possibilità di evitare la propria fine e questo li trasforma in veri e propri predatori del prossimo, ma con il pretesto della logica. Si cerca di giustificare la morte di alcuni con basi giuridiche, politiche, sociali, ma la verità è che non siamo capaci di spiegarci alcune dinamiche della vita.

Ora è su questo che i due testi ci aiutano a riflettere: nella chiusura ci rassegneremo a quel che verrà – se verrà – o cercheremo la sopravvivenza a tutti i costi? Forse c’è una terza possibilità data dalla collaborazione nella speranza?

Marialuce Giardini e Greta Mezzalira

 


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Redazione

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