«Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’».
“Loro” sono gli esseri umani: tutti scomparsi, dissipati, nella notte tra l’1 e il 2 giugno, mentre il protagonista del romanzo sfiorava il suicidio in un luogo inospitale, fuori dalla civiltà, cambiando idea solo all’ultimo. In molti leggono, tra le righe dell’ultimo romanzo di Guido Morselli, Dissipatio H.G., una prefigurazione del destino dell’autore, uccisosi a Varese il 31 luglio del 1973. Ma limitare Dissipatio H.G. a testo “preparatorio” del suicidio (come se Dissipatio H.G. fosse un romanzo sul suicidio!), leggere l’opera alla luce, deviante, del gesto finale di Morselli, è un errore davvero grossolano, che non rende giustizia al percorso artistico dello scrittore nato a Bologna.
Se l’ipotesi del suicidio è, sì, un elemento cardine dell’ultimo titolo morselliano, certamente impregnato di quel pensiero dominante che di lì a poco si sarebbe concretizzato in atto, io sono però più interessato a mettere in luce altri aspetti, forse trascurati, non guardando al protagonista del romanzo come a un “secondo Morselli”, bensì trattandolo esclusivamente quale creazione letteraria, cercando di distaccarmi dall’aura di autobiografismo che in tanti hanno contribuito a creare intorno a questo titolo.
Molto del fascino di Dissipatio sta nel seguente paradosso: un uomo che rifiuta allo stesso tempo la Civiltà e sé stesso si trova a diventare improvvisamente l’unico rappresentante della Civiltà e l’unico “Io”. L’ultimo Uomo al mondo è, assurdo, proprio colui che si rifiutava di essere Uomo, e che voleva recidere questa identità con un gesto volontario, netto: un gesto contrario alla Storia. Il destino che colpisce l’intera umanità è infatti recepito dalla stessa umanità con un senso di abbandono partecipe. Vediamo, ad esempio, quello che è secondo me uno dei passi-chiave, in cui il protagonista legge l’ultima pagina del diario di un cuoco, scritta la notte dell’1 giugno:
L’umanità non ha responsabilità, non ha colpe, subisce un destino: amiamo la morte. La morte degli altri, e più ancora, in questo precipitare dei tempi, la morte nostra. Ma non è furore suicida, non è l’istinto di morte supposto dalla psicologia. L’uomo in realtà è passivo. È la Morte che agisce, e lo chiama a sé. E il suo è un appello a cui non si resiste. Soddisfatta del nostro consenso, tacito ma unanime, stanotte Essa verrà a prenderci, senza agonia per noi, senza angoscia. E questo epilogo, per moltissimi o per tutti, sarà la soluzione di problemi insolubili, il rimedio insperato di mali insoffribili.
La Soluzione che si offre agli uomini è dunque la dissipazione, una scomparsa silenziosa nella notte, senza tormento né moto; il contrario di ciò che tentava, non riuscendovi, il nostro protagonista: e allora si assiste alla dicotomia irrisolvibile fra Storia e Anti-Storia, tematica centrale nei capolavori morselliani (si vedano, ad esempio, Roma senza Papa, o Contro-Passato Prossimo, dove questo elemento è più evidente, ma anche il delizioso Divertimento 1889, dove alla Storia, grande evento collettivo, si sostituisce il Quotidiano, così privato e borghese). Se, qui, la Storia è la comunanza del destino, l’Anti-Storia è l’individualità, la solitudine: nella notte in cui “l’uomo in realtà è passivo” e soprattutto “unanime”, il protagonista di Dissipatio H.G. decideva la propria diversità con la meditazione, attiva e contraria, del suicidio, sancendo così una solitudine che sta tra la dannazione e la salvezza. Anzi, che non sta né nell’una né nell’altra: una collocazione irrintracciabile, perché gli eventi sono imperscrutabili e non hanno motivazioni morali. Vero, l’ultimo degli uomini ci dice: «Io non ero diverso da loro». Ma è il momento di massimo terrore, nel romanzo, per il personaggio: egli sa di essere diverso, anzi addirittura l’Unico, a causa dell’evento che non si sa se catalogare come Destino o Caso, e che ha escluso solamente lui. L’ultimo degli esseri umani o è posto al di fuori della Civiltà o, se vogliamo leggere il libro specularmente, ne è il solo vero rappresentante; è, in ogni caso, per l’eternità separato dagli Altri.
Un altro elemento che trovo interessante in Dissipatio H.G. è l’ambientazione, che oltre ad offrire basilarmente uno specchio dei fatti narrati, è a mio avviso interpretabile in una chiave allegorica più profonda. Il primo dei due luoghi simbolo del romanzo è Widmad, il paese montano in cui il protagonista vive in un parziale isolamento dal mondo, dopo aver lasciato l’altro ambiente-chiave del libro, Crisopoli, ovvero “il luogo dove ha risieduto più a lungo e che ha detestato con deliberazione, spregiato con fervore”. A Widmad si vive con semplicità e, pare, senza troppa frenesia. La sua posizione («Tre massicci, ciascuno più alto di quattromila metri, fanno capo alla breve conca di Widmad») pare preservare questo villaggio dalla caoticità della vita cittadina, e lo rende un’alternativa: abitare a Widmad è, per il protagonista, un gesto di insofferenza nei confronti del mondo o, meglio, nei confronti della Cultura Dominante.
Il trasferimento nel villaggio di montagna (evento non raccontato nel libro, precedente ai fatti narrati) è una dichiarazione di incompatibilità, di disagio, forte come il tentato suicidio, poiché è scelta non tanto di protesta quanto di disaccordo, una confessione di inadeguatezza al mondo moderno. É dunque anch’essa scelta antistorica. Il mondo moderno è sintetizzato nella tentacolare Crisopoli, città ricoperta d’oro, con le banche, il Mercato dei Mercati, l’immenso aeroporto. Ecco una descrizione della grande capitale:
Con i suoi quattrocentomila mercati, Crisopoli è positiva come la positività stessa. Disponibile a ogni cosa, tranne i miracoli. Zavorrata d’oro monetato nelle sagristie delle sue sessanta banche, non può levitare nel meraviglioso, o anche solo nell’imprevisto. La più alta concentrazione di ricchezza che si conosca […]. Le sue radici attingono l’aeternum del capitale, quintessenza della realtà.
Crisopoli è una città in cui la diversità non è ontologicamente ammessa: la sua facciata è sfavillante ma inquietantemente monocroma, l’anormalità non è vietata, è impossibile. É la città-simbolo di un capitalismo forsennato che castra ogni guizzo centrifugo e non vede nulla oltre sé stesso, che si contempla immobile. Credo che Crisopoli sia una delle città più interessanti del ‘900 letterario italiano: in essa è perfettamente rappresentata e, credo, denunciata la staticità, mascherata in maniera accattivante, del sistema economico capitalistico. Crisipoli è una discreta Sodoma del denaro, in cui l’umanità si aggira sorridente ed alienata. Il destino di questa capitale è però comune a quello del resto del mondo: anche la Piazza del Mercato sarà svuotata per sempre, l’aeroporto non vedrà arrivare nessun aereo, ai telefoni risponderanno solo voci pre-registrate.
«Il Mercato dei mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore».
Anche a Crisopoli la Natura finirà dunque per inghiottire la cultura del capitalismo, che così da Nuova Religione sarà riportata nel novero degli accidenti che hanno costellata la Storia.
Il protagonista di Dissipatio H.G., ritornato a Crisopoli alla vana ricerca di qualche essere umano, non troverà naturalmente nessuno in questa città un tempo brulicante. La sua solitudine non è universale, non è di tutti noi: è una solitudine personale, intima. Al lettore di Dissipatio H.G. non è concessa l’immedesimazione, se pure si è tentati a mettersi in panni così singolari: l’abisso profondissimo di solitudine in cui sprofonda il protagonista è intangibile. L’ultimo uomo, alla fine del romanzo, attende il Dottor Karpinsky, che non arriverà mai: è proprio nell’attesa la dimensione del personaggio, nel non giungere a nessuna meta, a nessuna conclusione, nell’essere, in un secolo consumista e teleologico, in sospeso.
« In tasca tengo, per lui, un pacchetto di Gauloises».
Michele Donati
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