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«Haiku» e altri veloci stupori. Intervista a Marcello Muccelli

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12 minuti di lettura

È una figura straordinaria quella di Marcello Muccelli. Lo incontri e la sua energia ti invade, trapassa lo schermo che disgiunge i corpi. Attore e insegnante teatrale, gestisce una libreria per bambini da cui osserva – di sbieco, dunque profondamente – le infinite nuance del mondo. L’attenzione al dettaglio emerge dall’uso dei termini semplici, porte d’accesso a un bagaglio nutrito della migliore tradizione autoriale, da Gianni Rodari a Edoardo Sanguineti sino alle prove di un inedito Zanzotto. Haiku (Masciulli, 2020) di Muccelli è dunque il suggello di una visione prismatica, in cui discorso sull’oggi si lega saldamente a immagini ideali, costruite per diffrazione dell’orizzonte comune, attualmente orientato a un pattern “doloroso”.

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La scelta argomentativo-stilistica risponde appieno a un bisogno costruttivo, in cui il recupero dell’essenziale si pone nel solco di una prospettiva intimista, corredata da “vibrazioni” mitico-naturalistiche e da un richiamo sapiente alla tradizione poetica.

Haiku: modello, visione

Il canonico impianto dell’haiku (17 fonemi in forma di 5-7-5 sillabe disposte su tre righe) consente pertanto una riscoperta delle emozioni, fuggendo al contempo la tentazione impressionistica. A reggere la struttura è piuttosto la sinestesia, un richiamo alla percezione travisato da tono minore, in realtà raffinato esempio di uno sguardo totale – che assimila il modello giapponese e una certa via spirituale (l’autore è buddhista).

Il discorso di (e con) Marcello è potenzialmente infinito; il flusso narrativo viene sviato da un trattamento grafico che riproduce i flash della memoria, ogni parola non è mai “puro” termine ma presenza concreta, in grado di rivitalizzare microcosmi perduti. Si va dal bianco come compendio di più colori («Petali bianchi / veleggiano da nubi / formando neve»), alle figure di suono chiamate a esperire la potenza ritmica. L’opera, tanto agile quanto densa, si presta del resto a un operazione di s-montaggio, che dai «capovolgimenti» e «cambi di direzione» degli haiku si estende all’intera percezione del reale. Scopo del lavoro – dichiaratamente finalizzato a «veloci stupori» – appare pertanto uno scardinamento del “visibile” o, ancor meglio, del “logico sentire”. Lo conferma Muccelli stesso, la cui verve comunicativa è già strumento di stra-ordinaria sovversione.

haiku marcello muccelli
Copertina di Haiku, a cura di © Masciulli Edizioni

Qualche domanda a Marcello Muccelli

Catturare un sentimento, istoriare un’immagine. La filosofia degli haiku è essenzialmente “sensoriale”; l’aspetto formale – pur irrinunciabile – cede difatti il passo al racconto dell’“io”, al flash di un momento. Come è nata l’idea? Mi verrebbe da dire che la pandemia – la crisi globale che stiamo attraversando – ha rimesso in circolo emozioni autentiche, sensazioni, finanche desideri, che avevamo rimosso…

Gli ultimi haiku traggono spunto dal momento che stiamo attraversando ma molti, moltissimi altri sono stati concepiti prima. Tutti, comunque, nascono da momenti di stupore, da forti emozioni. Come hai ben detto si tratta di istoriare, di dipingere un momento sottratto all’eternità, al tempo che scorre. È come trasporre una fotografia su carta, cercare di rendere con le parole quelle emozioni che scaturiscono da un attimo. I componimenti scritti durante il lockdown risentono senz’altro di una maggiore introspezione, giacché la reclusione domestica ha imposto il bisogno di “rivivere” le sensazioni, figurarle così come erano state “fuori”. Vivere a un chilometro dal mare [a Ostia, ndr] e non poterci andare è stato difficile, pertanto ho lavorato sulla memoria e sulle sensazioni ricostruite: aprivo una finestra e mi lasciavo invadere dagli odori, dal soffio del mare che risvegliava antichi ricordi (i passi sul bagnasciuga, la sabbia bagnata ma in cui ancora non si affonda – quando, lambito dall’acqua, ti sembra di camminare nel grembo materno; e ancora la luce, il calore del sole, le onde “pettinate” dai suoi raggi…).

Quanto al processo creativo, come è andato configurandosi? Per dirla alla John Barth, in che modo si sono fusi “algebra” e “fuoco”?

A volte mi piacerebbe dire che è nato tutto per caso, che ho tirato in aria il calamaio e l’inchiostro ha vergato da sé. Ovviamente non è andata così, la passione ha bisogno di molta tecnica. Io sono attore e insegnante di teatro, sono abituato a parlare tanto, a proporre e condividere (anche se la mia formazione deve molto a Stanislavskij, Mejerchol’d, Grotowski, Barba, dunque si tratta più di un teatro d’azione). Ad ogni modo, durante varie sessioni ho cercato di comunicare e far comunicare un’emozione, come dire, “all’Ungaretti” – che tra l’altro era un grande appassionato di haiku. L’idea era quella appunto di tradurre in visioni un’emozione “indicibile”, andando alla ricerca di termini semplici ma profondi, secondo un’idea di levità che è tutto il contrario del banale. Vorrei riportare un esempio: «Un naso rosso / suscita gaie risa: / nutrono cuori». L’occasione di tali versi è nata da uno spettacolo che ho fatto a Tuscania, e che ho cercato di “rivivere” mediante ricordo; si trattava di un’iniziativa per bambini diversamente abili, e le loro risa mi erano rimaste nel cuore. Ecco, qui si vede il “fuoco” e l’“algebra”: la piacevolezza di un momento e il lavoro di tecnica di traduzione. Ho dovuto cercare le parole, tagliare l’eccesso. È come trovarsi davanti a una tela “chiazzata” da uniformare, ci vuole amore e precisione. Pensiamo alle figure retoriche, alle allitterazioni che utilizzo per “sprigionare” un mondo; in parte è merito degli haiku stessi (che prevedono la possibilità di combinazione e scomposizione), ma poi ci vuole una certa attenzione, ed ecco allora il ricorso a certi espedienti (ne troviamo un esempio qui: «Sogni smeraldo / gemme verdi dormienti: / Già primavera»).

La levità dei tuoi versi è forse, anche, un esercizio di “liberazione”. In quest’ottica – pur ponendoti nel solco della tradizione giapponese – l’idea di natura come soggetto sembra legarsi a un “occhio interiore” tipicamente occidentale. Da cosa nasce quest’esigenza?

Quest’idea, più che nell’eco occidentale, mi sembra possa trovarsi nell’io impermanente orientale. I momenti della nostra esistenza sono discontinui, nel senso che ci traghettiamo in un tempo che è “relativo” – non siamo già più gli stessi di cinque minuti fa – eppure abbiamo ricordi, emozioni, cicatrici visibili e invisibili. Ecco, è il mio io impermanente a dettare la scrittura; io lo prendo sotto braccio, mi faccio guidare e lo catturo – guardando, ovviamente, anche a ciò che c’è stato prima. Il condizionamento occidentale emerge senz’altro dal desiderio di scandaglio, e nel voler dare una traccia di sé. È ciò che chiamiamo ego, ma in me quest’impostazione è stata sorpassata dall’io impermanente, senza un sé vincolato e già fissato (inteso come insieme di elementi riconoscibili e appunto chiamati a stare lì, così, in quel preciso momento). Quello che ho messo nel mio scritto è, piuttosto, un soffio vitale. Mente e cuore, comunque li si voglia intendere.  

Quel che manca, nei tuoi haiku, è la condizione di timore. Tra i sentimenti tematizzati, questo “demone” odierno cede il passo allo stupore, a un inno alla vita che si compone di «brevi attimi», in cui risuonano le grida dei bimbi e il rumore delle onde. Mi sembra un’apertura di orizzonti, un invito a mostrarsi all’altro pur nella solitudine di questi mesi…

È vero, manca il timore. C’è, semmai, un profondo rispetto: per la natura e le sue creature. Pensiamo a un cielo stellato che improvvisamente si apre davanti a noi; si tratta di una bellezza indicibile, che comunica un senso di spaesamento e immensità. Il timore che esso suscita è tuttavia di altra natura, perché interroga la nostra finitudine, ci pone dinnanzi alla grandezza del cosmo. Viene quasi da chiedersi: «Cosa lascerò su questa terra, come può il mio passaggio dare qualcosa in più?». Questo però, lo chiamo rispetto. Il timore più “materiale”, che ci frena nella vita, va combattuto, fronteggiato. Non si può sfociare nella fobia, rodersi dentro. Molti dicono che la vera poesia nasce dal dolore, ma io credo che non sia sempre vero. Prendiamo La vispa Teresa (La farfalletta) di Luigi Sailer; è ironica, a tratti dissacrante, comunque – appunto – «giuliva». Si possono scrivere anche cose che scaturiscono dalla gioia, e che donano gioia. Io ho cercato di fare questo con la scrittura, mentre componevo i versi avevo un’idea precisa: non farmi sopraffare dalla sofferenza ma colorare la mia mente, dare un messaggio di felicità. Mi piace che quest’immagine si sia poi fissata nella copertina del libro, realizzata dalla bravissima Maria Zaccagnini. Mi ha effigiato come un cantastorie, che lancia in aria fiori pronti a diventare stelle oppure – ed è questo il bello dell’illustrazione – intento a compiere il movimento inverso. È una vera magia.

 


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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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