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I due Foscari: Verdi rinasce a Roma

6 minuti di lettura
Ragionando riguardo a I due Foscari di Verdi, mi sorgono spontanee almeno due riflessioni, non antitetiche, ma direi, piuttosto, complementari. La prima è determinata da un giudizio del grande Massimo Mila, che faceva rientrare, in maniera anche un po’ provocatoria, questo lavoro del 1844 in un catalogo di cosiddette “opere brutte” del compositore bussetano. E’ chiaro che, alla luce degli sviluppi drammaturgici e musicali ravvisabili nelle opere “post-galera”, I due Foscari (come anche altre) si pone su un piano inferiore, essendo viziata da un peccato di convenzionalità (sicuramente formale, ma anche “artistica”, analizzando certe linee melodiche molto semplici e poco originali). Pure la strumentazione, generalmente, non raggiunge apici troppo vertiginosi, si mantiene anzi su un livello di semplicità rassicurante. Nonostante tutti gli elementi sfavorevoli, io vedo in queste “opere brutte” di Verdi (e quindi anche de I due Foscari) assieme una testimonianza della cultura italiana di metà ottocento e un germe di futuro. Ritengo, forse banalmente, ma sono certo a ragione, che qualunque melodramma possa parlare con coerenza e vivacità alla nostra realtà contemporanea.
Traendo spunto, per esempio , da questa buia tragedia del Doge e del suo figlio, riesco a trasfigurare nell’arte i comportamenti squallidi di certa politica attuale, appesantita da “maneggioni” e corrotti come la Venezia del 1457. Viene inoltre trattato il problema della paternità e, relativamente a questo, quello insolvibile fra deontologia e volontà individuale, che sono addirittura (e nel Verdi maturo diventeranno i principali espedienti drammaturgici) motore della catastrofe. Insomma, l’amore e la riconoscenza che ho nei confronti della musica operistica mi porta a rivalutare (spesso, è naturale, parzialmente: non tutti i metalli sono oro) anche i lavori più bistrattati. Sono altrettanto convinto, però, che la riproposizione dei titoli minori debba passare attraverso l’eccellenza dell’esecuzione. Ebbene, come raramente mi è capitato, nei Due Foscari andati in scena in questi giorni a Roma io mi sono imbattuto nella rara eccellenza. Spesso per un critico è talora fastidioso ascoltare uno spettacolo dovendo stare attento in maniera quasi censoria ai cantanti, al direttore, tenendoli come per mano e badando che non facciano troppi errori, perché poi bisogna scriverlo. Ciò impedisce l’abbandono completo alla bellezza dell’Arte. Per fortuna le recite romane del melodramma verdiano sono piovute nel panorama lirico italiano come exemplum di riferimento per il futuro. A trionfare un Riccardo Muti che, da quando dirige nella Capitale sembra aver ritrovato uno smalto lucentissimo, che lo catapulta nell’empireo dei direttori viventi. Mai, mai, ho sentito qualcuno dirigere Verdi meglio di lui: la sua bacchetta conferisce una profondità metafisica al fraseggio orchestrale, ogni frase di ogni strumento vibra come una stella, nuovissima. Grazie a lui I due Foscari sono compresi in una patina di dolore universale, intimamente singhiozzante. Muti comprende Verdi drammaturgicamente e musicalmente. A rendere ancora più entusiasmante l’ascolto hanno contribuito decisamente i tre protagonisti, a cominciare da Luca Salsi, nei panni del Francesco Foscari. Lo scavo del personaggio è di livello assoluto pensando alla giovane età del cantante, fra l’altro graziato da un pregiato quanto raro timbro autenticamente verdiano: potrebbe essere lui il tanto sospirato erede della gloriosa scuola baritonale italiana, una volta regolato il conto con l’emissione degli acuti (penso, tuttavia, che la posizione del suono nelle cavità orali non debba generalmente inficiare sul giudizio riguardo a un interprete, a meno che l’emissione non avvenga in maniera completamente scorretta). Grande pure il Jacopo di Francesco Meli, un tenore dotato di caldo lirismo. Il fraseggio originale, le mezzevoci in falsetto ma bellissime, la potenza rotonda degli acuti lo rendono l’ideale per ruoli del genere (ricordo il successo del suo Oronte a Parma alcuni anni fa). Straordinaria Tatiana Serjan come Lucrezia Contarini. La Serjan è dotata di una impressionante tecnica di ferro, oltre che di un volume generoso. La resa del personaggio è accuratissima, determinata da una assoluta padronanza dei pianissimi e degli acuti. Piuttosto buono il livello dei comprimari, su livelli ottimi il Coro preparato da Roberto Gabbiani.
Un altro motivo di grande interesse per questa produzione era rappresentato dalla regia affidata al genio cinematografico Werner Herzog. Una regia in parte deludente, per chi si aspettava un’analisi moderna della partitura e del libretto: Herzog ha preferito rimanere nel terreno della tradizione, con scene stilizzate e costumi, molto belli, (entrambi di Maurizio Balò) a richiamare l’ambientazione veneziana quattrocentesca. La gestualità è quella classica, non v’è traccia di introspezione psicologica né di approfondimento sociologico (il popolo che volta le spalle alla tragedia politica e personale dei due Foscari, preferendo guardare sgargianti giullari, mi pare un po’ poco), tuttavia lo spettacolo fila liscio e godibile.
Al termine della recita un lungo, caloroso applauso ha sancito il trionfo di tutti gli artisti coinvolti, con punte incandescenti per il fenomenale Maestro Muti, per quello che sarà ricordato come uno degli eventi musicali più importanti del bicentenario verdiano.
Michele Donati

Redazione

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