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«Il furioso all’isola di San Domingo»: Donizetti da riscoprire

La storia di Cardenio, che tradito dalla moglie Eleonora, diventa folle. Ma cosa può portare a fare la follia per amore?

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Cardenio, ridotto alla follia dal tradimento della moglie Eleonora, si aggira per l’isola di San Domingo, fra il terrore dei locali, e intona la malinconica cavatina “Raggio d’amor parea”. La musica è assorta, malinconica. Sembra assurdo pensare che si tratti di un autoimprestito proveniente da Ugo Conte di Parigi, andata in scena alla Scala il 13 marzo del 1832, cioè l’anno precedente al Furioso. Ma tant’è, Donizetti era così, e Ugo Conte di Parigi è un’opera fra l’altro particolarissima, il cui materiale proviene spesso dalla Imelda de’ Lambertazzi, e che poi sarà usato appunto in altri lavori successivi quali anche Parisina.

Ma Il Furioso all’Isola di San Domingo è opera ancora più particolare, che non esito a considerare fra i capolavori nascosti del melodramma italiano della prima metà dell’800. La pazzia di Cardenio, che non si manifesta in un’unica scena come nei casi femminili, ad esempio la celebre Lucia di Lammermoor, ma ricopre l’arco di quasi tutta l’opera, è l’archetipo della furia (in senso ariostesco, e prima ancora senecano) amorosa maschile sui palcoscenici lirici, che verrà ripetuto, sempre affidato a voce baritonale (il timbro più dolente, non a caso) nel Torquato Tasso. Cardenio e Torquato, fra l’altro, vantano lo stesso primo interprete, il grande baritono Giorgio Ronconi, anche primo Nabucco: evidentemente il Ronconi doveva trovarsi a suo agio nelle vesti degli impazziti.

Altro elemento particolare del Furioso donizettiano, che si deve specialmente al geniale librettista Jacopo Ferretti, autore della Cenerentola di Rossini (ma anche del Torquato Tasso), è la commistione di elementi tragici e comici: le visioni di Cardenio possono far ridere al primo impatto, ma non se ci si ferma a riflettere sulle disgrazie di quest’uomo reietto e abbandonato. Pirandello parlerà di “Sentimento del contrario” nel suo saggio L’umorismo, e io credo che tale concetto sia benissimo esemplificabile osservando questa figura strana, triste, di innamorato distrutto.

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E il buffo servo nero Kaidamà è figura grottesca ma al contempo umana, costantemente sotto scacco, terrorizzato all’idea di ricevere le ennesime percosse («il furioso picchiava forte!»). Ci racconta una storia fatta di emarginazione e maltrattamenti, ma nella sua fedeltà comunque disinteressata a Cardenio, si esplica una nobiltà d’animo che può quasi far pensare ad una sorta di manifesto donizettiano antirazzista. Quasi, perché non è dato considerare in questi termini il “moretto” (così nel libretto) Kaidamà, che resta più che altro e soprattutto il momento comico di una partitura dal potenziale tragico, anche se non si sta parlando più del comico surreale di Rossini. D’altra parte la comicità donizettiana, forse maggiormente riflessiva, sicuramente meno rutilante, trova sempre crepe in cui si innesta un momento di amarezza, esempi principi ne siano L’Elisir d’amore e Don Pasquale.

Tralasciando queste riflessioni che spingerebbero troppo lontano il discorso, si passi all’altrettanto interessante personaggio di Eleonora, modernissima moglie infedele, francamente antipatica, chissà se sinceramente pentita. Forse sì, ché se cerca il marito in lungo e in largo per l’oceano qualcosa vorrà dire, ma forse no, forse si è stancata del suo amante come si era già stancata del marito. Civettuola, fresca, Eleonora sembra una Norina solo un po’ più mesta, dall’aria un po’ disincantata. Dietro i suoi svolazzi vocali si cela un’altra instabilità, di tipo affettivo, e perché no, mentale: pure Eleonora potrebbe essere una pazza in potenza. A lei e al suo rondò (difficilissimo) “Nel piacer di questo dì” è riservato l’onore, a dire il vero tradizionale in quel periodo, di chiudere l‘opera, con un finale lieto in parte dissonante rispetto alle tenebre della finta cecità di Cardenio su cui si apriva il secondo atto.

C’è poi Fernando, alla ricerca del fratello Cardenio, che non è il tipico tenore amoroso dell’800, e se non fosse per la tessitura acuta parrebbe di trovarsi di fronte ad uno di quegli eroi che Verdi consacrerà ai Mani familiari. A Fernando sono dedicati i momenti probabilmente più convenzionali dell’opera, scene soliste o col coro, che si concludono con cabalette scattanti. Altra cosa rispetto al continuo variare della vocalità di Cardenio, ora frenetica ora sospesa. E proprio nei momenti assorti il ruolo trova la sua dimensione più riuscita e felice: oltre alla già citata cavatina penso all’arioso “Ma di’, perché tradirmi?”, ma anche al duetto “Dei begli occhi i lampi ardenti”, stupendo momento di rimembranza.

L’opera è dunque fra le più interessanti del catalogo del compositore bergamasco, e meriterebbe una piena rivalutazione. Se non altro perché penso possa descrivere fedelmente i nostri tempi, in cui non si sa se ridere o se piangere, se convenga l’alienazione della pazzia o l’accettazione della verità. Se non altro perché il folle d’amore medita perfino di uccidere la sua donna. Ma almeno non lo fa, perché è folle d’amore, non di possesso.

Michele Donati

Il furioso all'isola di San Domingo Donizetti

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