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«Il libro dell’inquietudine»: la desolazione di Pessoa

8 minuti di lettura

E capì tardi che dentro quel negozio di tabaccheria
c’era più vita di quanta ce ne fosse in tutta la sua poesia.
(Roberto Vecchioni, Le lettere d’amore)

Fernando Pessoa è indubbiamente, nonostante la sua semplicità, un personaggio “occulto” e lo era anche ai suoi stessi occhi. Così è nato il Livro do Desassossego, in Italia conosciuto come Il libro dell’inquietudine.

Protagonista di questi «frammenti, tutto frammenti» è Bernando Soares, il non-personaggio per antonomasia, definito dall’autore-creatore-custode come un semi-eteronimo, «perché, pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività». Quindi, cosa resta? Basta leggere alcune pagine di questo diario intimo per capire che Pessoa ha delegato a Soares il compito di scrivere la sua biografia «priva di fatti», attraverso una personalissima rinuncia della vita, elemento cardine che accomuna i due in maniera totalizzante; Bernardo tende a dissolversi, «a ridursi a un nucleo sensoriale che serve di accesso a un qualcosa che sta oltre lo sguardo e la psiche, oltre gli occhi e l’intelletto», come afferma Antonio Tabucchi. Uno sguardo che cerca di comprendere il più possibile il rapporto fra l’Io e il mondo che ci circonda, con risultati poco appaganti e sfocianti nel decadentismo più disperato.

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Il concetto chiave dell’inquietudine (etimologicamente vista come “non voce”) pessoiana è l’incompetenza verso la vita comune riscontrabile non solo in questa raccolta di visioni, ma anche nella sua intera poetica e nelle sue lettere, in particolare quelle rivolte a Ophèlia Queiroz, la sua unica vera innamorata. Lettere, queste, delle quali vale la pena riportare un passo per svelare almeno un po’ l’occultezza già citata e per conoscere al meglio l’immenso personaggio metafisico creato dall’autore.

Capisco che una persona malata è seccante, che non è facile sentire tenerezza per lei. Ma io ti ho chiesto solo di fingere un po’ di tenerezza, di simulare un po’ di interesse per me.
(20 marzo 1920)

Pessoa-Soares è un personaggio alla ricerca della verità, volto alla distruzione del velo di Maya, che però non riesce poi ad accettare quel che vede, a comprendersi in quel che è il gioco del mondo – e cioè la quotidianità. In questa affannata inchiesta, il protagonista «sdorme» e lo fa per vent’anni, rimanendo seduto in una stanza d’ufficio o nella sua povera camera in affitto addobbata a salotto intellettuale – simile a quelli dell’alta borghesia del Novecento – nel quale sviluppa un dialogo incerto, o meglio, una conversazione mutilata.

Siamo tutti schiavi di circostanze esterne: una giornata di sole ci spalanca vasti campi in mezzo a un caffè di vicolo; un’ombra in campagna ci fa ritrarre dentro di noi e cerchiamo riparo alla meno peggio nella casa priva di porte di noi stessi; un imbrunire, perfino fra le cose del giorno, allarga come un ventaglio che si apre lentamente, l’intima consapevolezza di dover riposare. Eppure il lavoro non subisce ritardi: si anima. Non lavoriamo più; ci intratteniamo con il dovere a cui siamo condannati.

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Desiderio di Bernardo Soares è cogliere l’essenza, per lui (restando fedele al misticismo del suo progenitore) rappresentata dall’anima – uno spirito vitale che trascende le funzioni fisiche, sociali, e si lancia su qualcosa di più. Per lanciarsi occorre prima staccarsi da queste “circostanze esterne”, il lavoro per primo, che non è più visto come produzione ma come routine umana; non tanto priva di stimoli quanto di universalità. Ma chi è in torto? L’uomo Soares? L’umanità? E Soares non fa parte dell’umanità? Tre volte no. Rua dos Douradores e la sua estemporaneità distruggono un protagonista che proprio in essa vorrebbe trovare il significato e significante di se stesso. Unico appiglio e al contempo ennesimo cappio sono i mezzanini, ovvero quei ristorantini in piccole vie che sembrano quasi vivere ai margini della vita.

Pieno di tristezza scrivo, nella mia stanza tranquilla, solo come sono sempre stato, solo come sempre sarò. E penso che la mia voce, apparentemente così incolore, non possa incarnare la sostanza di migliaia di voci, la fame di raccontarsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni di anime sottomesse come la mia, nel destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza memoria […] Sento nella mia persona una forza religiosa, una specie di preghiera, qualcosa simile ad un clamore. Ma la reazione contro di me viene dall’intelligenza….

L’amore. L’amore è tutto ciò che Pessoa chiede e rinnega alla vita, la sua stessa vita. Quell’affetto che ritrova nella semplicità – un pezzo di pane, il dare senza aspettarsi nulla e senza chiedere nulla – e che gli viene negato da quel che per lui sono le uniche autorità competenti della società: le persone. Questa tristezza dolce, priva di un porto al quale approdare, fa sì che il poeta scriva su materiale occasionale, dai margini bianchi di pagine già utilizzate a buste commerciali – motivo per il quale questa raccolta frammentaria risulta ancor più disordinata del normale – come a trovare lì e solo lì uno spazio proprio nel quale esprimersi.

Una pagina dell'originale del Livro do Desassossego
Una pagina dell’originale del Livro do Desassossego

Uscito per la prima volta in Portogallo solo nel 1982, Il libro dell’inquietudine è il volume più prezioso di chi fu uomo obbligatoriamente sociale e volontariamente escluso, rinominato dalla sua unica amata Fernando Personne, gioco di parole dal portoghese al francese che trasforma rispettivamente “persona” in “nessuno”.

Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste. Il bambino è rimasto, ma è ammutolito.

Il ricordo della terra di Fernando Pessoa è la solidarietà agli emarginati dalla vita, a quelli che potremmo definire inetti, che forse sono semplicemente altrove.

 

Miriam Di Veroli

Immagine di copertina: commons.wikimedia.org

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.