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In quarantena con filosofia: sul furore | òbolo /7

Giordano Bruno e John Steinbeck. Due epoche, due punti di vista distanti (ma, forse, nel profondo affini) su uno stesso tema: il furore.

4 minuti di lettura

Un parte consistente De gli eroici furori, il dialogo scritto da Giordano Bruno, è dedicata alla reinterpretazione del mito di Atteone. Nella mitologia, Atteone era un cacciatore, figlio di Aristeo e Autonoe. Levatosi per una battuta di caccia, Atteone s’imbatté nelle dea Diana mentre si rinfrescava in un laghetto al centro della foresta. Era nuda, e l’occhio umano, così volevano gli Antichi, non può incontrare le carni svestite di un dio. Diana scagliò con la punta del dito una goccia d’acqua verso Atteone, che raggiunse il suo corpo. Atteone scappò, inseguito dai suoi 50 cani che, per opera di Diana, della goccia di Artemide, non lo riconoscevano più, finendo per sbranarlo.

Secondo Giordano Bruno, Atteone rappresenta l’intelletto alla ricerca della sapienza, ossia la volontà, l’eroica volontà di ricongiungersi a quel Tutto che lui chiamava Natura. La Natura – che è, come diceva lui, coincidenza di opposti, dove non c’è giusto o sbagliato, bene o male, ma giusto e sbagliato, bene o male, come preda e predatore nel caso di Atteone, sono lo stesso. Questa brama folle, questo furore che cerca l’unione è, secondo Bruno, eroico, poiché la ricerca di Atteone è destinata a fallire, non potendosi unire lui, finito, a qualcosa, la Natura, d’infinito.

Il tema del furore, considerato da tutt’altro punto di vista, è al centro di uno tra i più riusciti romanzi di John Steinbeck. Il passo che riportiamo, forse sotterraneamente, o forse no, ha nel suo profondo un accento che suona affine a quello del mito narrato da Bruno sul furore.

E poi, se aveva po’ di soldi, uno poteva sempre sbronzarsi. Niente più spigoli, un bel teporino. Spariva la solitudine, perché uno poteva riempirsi il cervello di amici, e i nemici snidarli e distruggerli. Seduto in un fosso, sentiva la terra farsi morbida sotto di lui. Le sconfitte si smussavano e il futuro non era una minaccia. La fame smetteva di assillare, il mondo era morbido e cordiale, la meta del viaggio sembrava raggiungibile. Le stelle si facevano meravigliosamente vicine, e il cielo era dolce. La morte era un’unica amica, e il sonno era fratello della morte. Tornavano i bei tempi andati, così cari e dolci. La ragazza dai piedi aggraziati che una sera aveva ballato al paese… un cavallo… tanto tempo fa. Un cavallo e una sella. E il cuoio era lavorato. Quanto tempo fa? Mi devo trovare una ragazza e farci quattro chiacchiere. È bello. E magari farci pure l’amore. Ma qui si sta bene. E le stelle sono così vicine, e la tristezza e il piacere sono così intrecciati che sembrano la stessa cosa. Vorrei essere sempre sbronzo. Chi lo dice ch’è male? Chi s’azzarda a dire ch’è male? I predicatori – ma quelli si sbronzano alla loro maniera. Le zitelle acide – ma quelle sono troppo infelici per capire. I moralisti – ma quelli la vita la vedono troppo da lontano per capire. No: le stelle sono vicine e dolci e io mi impasto con la gran fratellanza dei mondi. E tutto è sacro – tutto, persino io.


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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.