Nel trentanovesimo capitolo del Libro Primo dei suoi Saggi, intitolato Sulla solitudine, il filosofo Michel de Montaigne si profonde in un elogio della solitudine. Scrive Montaigne:
Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo.
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Le considerazioni di Montaigne non hanno nulla di misantropico. Esse derivano piuttosto da una diagnosi antropologica, che riguarda cioè non un uomo, Montaigne, amante dei libri ed insofferente alla vita sociale, ma l’Uomo.
Profondo conoscitore della filosofia antica, Montaigne, come gli Stoici, sapeva che fondare la propria sicurezza emotiva sugli eventi esteriori è un rischio. La vita torna sempre sui suoi passi, rompendo, talvolta, quello che noi avevamo costruito sopra di essa. Così, amicizie si rompono, amori s’infrangono, la borsa crolla e le finanze se ne vanno. Come già Aristotele scriveva all’inizio della sua Etica Nicomachea, l’onore, la fama, la ricchezza possono solo in parte rendere la nostra esistenza degna di essere vissuta. L’unico luogo al quale, in fondo, noi possiamo sempre ritornare, è quello che Montaigne chiama, appunto, retrobottega.
Il retrobottega è quello spazio creato tra sé e sé che resiste alle calamità. Non è necessariamente il Nirvana, la Pace dei sensi, un’ascetica o impossibile liberazione di sé. È ciò che si sa, con certezza, appartenere a noi e noi soltanto; appartenenza che deriva, ancora una volta e inevitabilmente, dall’ottemperanza al motto delfico: conosci te stesso. Per Montaigne questo è il luogo della solitudine, ove sfuggire al logorio della vita accelerata, affaccendata. Non è detto che lo stesso valga per tutti. Anzi, sicuramente non è così. Forse, però, il nostro retrobottega, è il caso di cercarlo.
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