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Intervista a José Molina, l’artista spagnolo
alla ricerca di un’altra bellezza nascosta

Il suo ambiente, i suoi sogni e la sua arte raccontati a noi

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7 minuti di lettura

José Molina«Qui ci sono quadri anche in bagno» dice José Molina sorridendo, mentre mi mostra il suo studio. Sebbene da buon spagnolo l’ironia non gli manchi affatto, un po’ sorpresa, poco dopo, capisco che non sta scherzando. Il bagno, così come le altre stanze, è infatti ricolmo di dipinti, posti ordinatamente uno sopra l’altro sugli scaffali, e gelosamente avvolti in pezzi di stoffa bianca. Il fatto che si infili anche nei luoghi in cui uno meno se lo aspetta, rende chiaro che l’arte è per José una presenza costante, una compagna di vita inseparabile. L’intervista che gli faccio, non fa che confermare questa mia prima impressione.

L’altra bellezza è il titolo della sua mostra appena terminata a Como, nella ex chiesa di San Pietro in Atrio. Che cosa significa questa espressione?

A questo proposito, parlo sempre di Merrick, l’uomo elefante protagonista del celebre film, che ho rappresentato in uno dei miei quadri. La gente ha in genere una visione della bellezza molto ristretta, quella esterna, invece ce ne sono di molti tipi. A me piace la storia, soprattutto mi piacciono i suoi personaggi più anonimi, più sfortunati, meno brillanti. Ora sto lavorando a un progetto sulla donna, AnimaDonna. La quantità delle donne a noi sconosciute, che però hanno fatto tanto, si sono sacrificate per noi, è di una bellezza pazzesca. La mia volontà è di ampliare il concetto di bellezza, di trovare una bellezza nascosta, quei gioielli nascosti nel buio.

Dunque l’arte può trasmettere modelli di bellezza diversi da quelli a cui la tv, internet o la pubblicità ci hanno ormai abituato.

Il modello di bellezza è sempre cambiato nei secoli. Se guardiamo un quadro di Rubens, ci stupiamo di fronte a quella che allora era considerata la bellezza. È vero però che l’idea di bellezza di oggi è molto condizionata, le attrici di Hollywood sono incavolate perché sopra a una certa età non le chiamano più. Sono abbandonate per un concetto di bellezza che decidono quattro tipi con un certo potere in questo momento, ma tutti noi possiamo fare qualcosa per cambiare le cose. Un esempio è il film Still Alice con Julianne Moore, che parla di una donna di 50 anni che soffre di Alzheimer. Alla Moore avevano detto che il film non funzionava, allora lo ha girato in modo indipendente: ha lavorato per pochissimi soldi, ma poi il film ha avuto un successo economico enorme. Julianne Moore, insieme ad altre attrici, denuncia la situazione delle donne, così anche noi, con le nostre scelte, possiamo muovere il concetto di bellezza.

Lei ha affermato che un artista dovrebbe essere una coscienza critica della società, un uomo che si impegna nei confronti delle questioni sociali che si impongono nella sua contemporaneità.

È una mia scelta, una mia opinione. Ciò non significa che chi fa altro non è un artista; c’è gente che provoca, che cerca la bellezza per sé. Non c’è una ricetta. Ci vuole tutto, a volte c’è bisogno anche di ridere, di dimenticarsi, di volare su una navicella spaziale. Io penso però che un artista debba avere gli occhi aperti, rivestire una certa funzione e non mirare solo al successo. Purtroppo oggi si sta mercificando tutto. Le banche hanno una funzione, sono nate in Italia nel XV secolo per i contadini che avevano bisogno dell’attrezzatura per lavorare, ma non avevano il denaro per farlo. Oggi ci stiamo dimenticando anche a cosa serve una banca. Allo stesso modo, un artista serve per la società, quindi non deve lavorare per la gloria, il denaro o il successo.

Ci sono delle tematiche a cui lei è più sensibile?

A me tocca molto l’uomo con le sue relazioni, a livello sociale, psicologico, politico e filosofico-religioso. Ogni giorno leggo i giornali per capire cosa sta succedendo, dove va la Nasa, come sarà il futuro. Dobbiamo essere una spugna, per poi spremere fuori ciò che abbiamo assorbito attraverso la creatività. Spesso anche gli uomini che all’inizio ti sembrano meno interessanti, poi ti fanno scoprire nuove strade.

Merrick e il dolore, 2011, collezione “Los Olvidados”, matita grassa su carta
Merrick e il dolore, 2011, collezione “Los Olvidados”, matita grassa su carta

Nelle sue opere, che in alcuni casi possono essere affiancate alla fotografia per la precisione dei dettagli che presentano i soggetti disegnati, emerge un elemento che la macchina fotografica non potrebbe mai cogliere: la mostruosità che si cela nell’uomo, una subconscio efferato, oserei dire. Vuole parlarci un po’ di questo? Quanto contano i suoi studi di psicologia a riguardo?

Tutto quello che si può studiare è molto interessante e apre tante porte. La fotografia, che a me piace tantissimo, ha un campo, quello della realtà. La fotografia arriva però fino a un certo punto, la sua base rimane la realtà, anche se presa dai punti di vista più originali. La pittura invece può volare dove vuole, può mostrare un altro tipo di bellezza, un altro tipo di mostruosità, un altro tipo di verità e di realtà. Io credo quindi che la pittura sia una buona chance. per noi.

Durante la visita guidata con i ragazzi dell’Accademia delle Belle Arti “Aldo Galli” di Como, ha affermato che il suo studio sulla donna, approfondito nella collezione Animadonna, non è tanto una ricerca nel campo della donna, quanto uno studio su tutto ciò che è femminile. Cos’è dunque per lei il femminile?

Io penso che ogni donna e ogni uomo abbia dentro di sé una parte femminile e una maschile, legata anche alla sua funzione biologica. La femmina negli animali non solo partorisce e cura i cuccioli, ma va anche a caccia. Invece i maschi di solito difendono il territorio e usano la forza. Ci sono livelli che si toccano e che comunicano, l’umano è molto complesso e uno può avere una parte più sviluppata dell’altra. Io capisco che la donna si prende cura, che abbia o no figli. La femmina ha un’inclinazione di cura verso il cucciolo e questo le condiziona la vita: ha una prospettiva diversa, perché deve provvedere al benessere del suo cucciolo. L’uomo ha uno spirito di conquista diverso. Questo non vuol dire che anche la donna non possa partecipare alla conquista o che il maschio non possa avere sensibilità verso il cucciolo, verso il più debole. Io parlo però della condizione biologica che condiziona l’agire. Di fronte alla crisi, la donna ha una visione diversa, vuole sistemare le cose perché dietro di sé ha i figli, così anche noi maschi dobbiamo sensibilizzarci a riguardo.

Anche il mondo femminile può essere incluso tra Los Olvidados, la sua collezione dedicata agli uomini dimenticati, vinti e messi a tacere? 

Le collezioni Los Olvidados e Animadonna sono nate parallelamente nel 2008, quando in pochi prevedevano la crisi. Il benessere non sempre è positivo, perché ci fa avere troppa fiducia in noi stessi, ci fa abbassare le difese. Invece quando si è in crisi si è più consapevoli della propria condizione. Nel tempo, la storia si è mossa non tanto per i generali o per i leader, ma grazie alla gente. In Spagna oggi i numeri cominciano a essere migliori, così i politici vogliono prendersene i meriti, ma è la gente che ha ricevuto meno soldi, ha lavorato duramente e ha creato una situazione migliore. Tra la gente ci sono certamente anche le donne, che sono rimaste dietro agli uomini andati in guerra, che hanno tenuto acceso il focolare.

La sua opera-manifesto della mostra di Como, Lucy, La prima Eva, ha le sembianze, nei lineamenti del viso, della sua compagna Chiara, non è vero? Dunque la prima donna per lei non è solo l’archetipo di un genere, ma assume anche le sembianze del reale, della sua sfera emotiva e relazionale?

Sì, è così. Io e Chiara stiamo insieme da 15 anni, dunque lei rappresenta quello che per me è una compagna, una moglie. Nei miei quadri io utilizzo sempre persone che conosco, per soffiare più vita, per dare più colore. La prima volta che ritraggo un volto vedo due occhi, un naso e una bocca. Quando conosco quel volto, riesco a tirare fuori un’anima: la luce degli occhi, il modo di parlare e di muoversi.

Lei ora vive a Gravedona ed Uniti, sul Lago di Como. Perché ha scelto di vivere in un piccolo paese? In che modo l’ambiente in cui vive entra nella sua opera?

Io ho vissuto per anni a Madrid e poi a Milano. Ogni periodo ha un bisogno personale: non voglio abitare in un posto dove sono stanco di vivere, dove sento che ho bisogno di riempire con altro la mia vita. In questo momento avevo bisogno di un po’ di tranquillità, di parlare con me stesso, di cercare nuovi spazi e di essere a contatto con la natura. La natura del Lago di Como entra nella mie opere in molti modi: per esempio, camminando nei boschi, raccolgo dei pezzi che diventano parte delle mie opere.

Pensa che l’Italia, con i suoi innumerevoli capolavori, sia ancora oggi un Paese in grado di offrire spunti a un artista contemporaneo del suo calibro, o ritiene che debba far qualcosa in più per rimanere al passo con i tempi?

L’Italia ha il 30% dei beni dell’UNESCO. Ciò significa che, nel piccolo territorio che occupa, possiede un terzo dei beni culturali di tutto il mondo. La politica non è consapevole di questa ricchezza. Si sente sempre parlare delle condizioni di Pompei, ma anche il Mausoleo di Ottaviano a Roma è magnifico, eppure cade a pezzi. Questo è drammatico. Per i parchi divertimento si spendono milioni di euro, mentre la cultura viene lasciata in secondo piano. In più, i politici fanno uso privato del denaro pubblico. Tuttavia, credo che siamo noi, la gente, che possiamo cambiare le cose. Mio padre, in Spagna, si è ritrovato in un paese distrutto dalla guerra e dalla dittatura, ma la sua generazione è riuscita a risollevarsi. Allo stesso modo, anche i giovani d’oggi possono impegnarsi per cambiare lo stato attuale delle cose.

Chiara Zanotta

Lucy, la prima Eva, 2014, Collezione “AnimaDonna”, Capitolo “Gli Arcangeli”, Matita grassa su carta
Lucy, la prima Eva, 2014,
Collezione “AnimaDonna”, Capitolo “Gli Arcangeli”, Matita grassa su carta

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Redazione

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