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Iran Talks. Abschluss Iran Verhandlungen. UNO. Wien, 14.07.2015, Foto: Dragan Tatic

L’Iran Nuclear Deal sembra essere di nuovo alle porte

Le trattative sull'Iran Nuclear Deal sono ripartite a novembre 2021, dopo che gli USA guidati da Trump erano usciti dall'accordo. Ora si punta a tornare alle condizioni firmate nel 2015 da Barack Obama e Hassan Rouhani. Si riuscirà a raggiungere questo obiettivo?

11 minuti di lettura

L’ottimismo dà una nota di colore alle principali dichiarazioni dei leader impegnati a Vienna in questi giorni per ridare vita al cosiddetto Iran Nuclear Deal, in termini tecnici il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA).

Le trattative sono in corso dal 29 novembre 2021 e coinvolgono gli attori firmatari dell’accordo originale del 2015, cioè Iran, USA, Germania, Francia, Cina, Russia e UE. Proprio un ritorno alle condizioni dell’accordo sul nucleare firmato da Barack Obama e Hassan Rouhani è l’obiettivo primario oggi, che non esclude degli sforzi successivi per specificare ulteriormente termini e vincoli, una volta ripristinati i fondamentali. Per l’Iran significherebbe in primis un alleviamento delle sanzioni che hanno martoriato l’economia del paese in questi anni pandemici, mentre per gli Stati Uniti e per gli altri paesi interessati questo risultato rappresenterebbe un freno alla corsa della Repubblica Islamica verso il successo nella realizzazione dell’arma nucleare.

«Niente è concordato fino a che tutto non è concordato»

Eppure, come i negoziatori ripetono, principalmente per esperienza ma probabilmente anche per scaramanzia, «Niente è concordato fino e che tutto non è concordato». Sarebbe a dire che le aspettative in questi giorni riguardo al successo nel raggiungimento di un accordo sono alte, ma illuderci di averne la certezza sarebbe un grave errore.

A questo punto infatti tutte le parti sembrano propense a definire l’accordo, ma gli occidentali insistono sul fatto che ora tutto è nelle mani e nella buona fede del presidente iraniano Ibrahim Raisi, definito un “falco” e la cui elezione nel giugno 2021 aveva fatto temere che mai il dialogo si sarebbe potuto sviluppare sotto la sua leadership del paese. D’altro canto, Raisi ripete a più riprese che le sorti dell’accordo dipenderanno dalla propensione delle controparti occidentali a “dimostrare flessibilità”.

Entrambe le parti interessate alla riattivazione del JCPOA chiedono un periodo di verifica dell’effettivo impegno altrui prima di adempiere ai doveri rispetto a cui si impegnano: gli Stati Uniti vorrebbero verificare il reale disimpegno iraniano nell’arricchimento dell’uranio prima di rimuovere le sanzioni in maniera significativa, l’Iran reputa indispensabile assicurarsi che gli USA optino per l’alleviamento delle sanzioni prima di cominciare a rallentare le attività delle sue centrali nucleari.

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Il ritiro americano dall’Iran Nuclear Deal

Un equilibrio di tempistiche e, per quanto suoni paradossale, di “atti di fiducia” sembra essere richiesto. Paradossale perché i due attori principali della vicenda sono, in termini geopolitici, acerrimi nemici da ormai quarant’anni a questa parte, cioè dalla rivoluzione iraniana del 1979. Ma anche perché pure di recente sono proprio la fiducia e il senso di affidabilità nei confronti dell’interlocutore i due elementi che più di tutti sono venuti a mancare. Il ritiro unilaterale degli USA dall’accordo nel 2018, sotto la presidenza Trump e l’assassinio del generale iraniano Qassem Soulemaini nel 2020 sono solo due degli episodi, ma decisamente i più rilevanti, che hanno fatto pensare negli anni scorsi che un dialogo tra le due potenze fosse ormai fantascienza.

Una delle richieste fondamentali da parte dell’Iran per riuscire a stipulare un accordo oggi è ricevere qualche forma di garanzia riguardo al fatto che non ci sarà un nuovo e inaspettato ritiro USA. Nel 2018 infatti dopo gli sforzi compiuti dall’amministrazione Obama in due anni di trattative, dal 2013 al 2015, Donald Trump ha deciso di ritirarsi unilateralmente dall’accordo, nell’ambito del quale invece sono rimasti i paesi UE coinvolti, la Russia, la Cina e l’Iran. Nonostante la sopravvivenza dell’accordo tra questi paesi, a seguito dell’imposizione delle sanzioni da parte degli Stati Uniti, questo ha di fatto perso tutta la sua efficacia, perché nel 2019 la Repubblica Islamica, in risposta, ha ricominciato a far lavorare a tutta velocità le sue centrali nucleari. La versione iraniana è sempre stata quella che la ricerca del paese in ambito nucleare mirasse a scoperte scientifiche da impiegare in ambito civile-economico, eppure la soglia di arricchimento d’uranio al 60% rendeva evidente la preparazione in corso per la costruzione della bomba atomica. La minaccia di un Iran dotato di un’arma nucleare nella già poco stabile regione mediorientale ha fatto preoccupare non poco le potenze regionali, in primis Israele, che insieme agli Stati Uniti è il nemico principale della nuova Persia.

Ma perché Trump ha deciso di fare un passo indietro su tale accordo? Secondo la sua versione ufficiale il motivo era l’insoddisfazione rispetto alle condizioni che esso implicava. Stando a quanto diceva Trump infatti l’Iran Nuclear Deal era inefficace e mancava l’obiettivo di tutelare gli Stati Uniti e il mondo dalla minaccia iraniana. Accanto a questo, Trump definiva l’Iran come una potenza destabilizzante per l’area mediorientale, finanziatrice di gruppi terroristici, riferendosi in primis alla milizia sciita Hezbollah, e quindi un soggetto inadatto per il mantenimento di un accordo.

I fatti verificatisi dal 2018 ad oggi ci dicono che la decisione di Trump tutto ha provocato eccetto una stabilizzazione dell’area e dei passi avanti nell’arginamento delle ambizioni nucleari iraniane, che anzi sono notevolmente incrementate in questo periodo e che vedono un freno solo ora che il ripristino dell’accordo ripudiato dal Tycoon sembra essere alle porte. Non a caso, la rinegoziazione di un accordo sul nucleare è stato uno dei punti principali della politica estera americana sin dall’inizio dell’operato dell’amministrazione Biden.

Cosa implica un nuovo accordo?

Ma cosa implicherebbe, nei fatti, la firma di un nuovo accordo da parte delle potenze coinvolte? Reuters riporta che una bozza dell’accordo presente sui tavoli viennesi di questi giorni cita come condizioni il rilascio di prigionieri occidentali detenuti in Iran e la richiesta di abbassamento del livello di arricchimento d’uranio al 5%. È importante ricordare che dal 2015 al 2018, il periodo in cui l’originale l’Iran Nuclear Deal era in vigore, la soglia di purezza era stata limitata al 3,67% e che dal momento in cui gli iraniani hanno ripreso a puntare sul loro settore nucleare, nel 2019 dopo un anno dalla re-imposizione trumpiana delle sanzioni a seguito del ritiro statunitense dall’accordo, era schizzata al 60%. In cambio la Repubblica Islamica, stando a questo testo, tra le altre cose vedrebbe subito lo sblocco di 7 miliardi di dollari di proprietà iraniana bloccati dalle sanzioni americane nelle banche sudcoreane e in generale una diminuzione, se non l’azzeramento, della pressione economico-commerciale che in questi anni ha messo in ginocchio il paese.

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Gli effetti delle sanzioni americane sull’economia iraniana

In merito agli effetti che le sanzioni americane hanno provocato sull’economia iraniana, queste sono state particolarmente dannose durante i periodi di peggiore crisi pandemica che ha visto l’Iran come il teatro più critico del Medioriente. Nell’aprile 2021 per esempio l’Iran toccava soglie di 400 morti al giorno e più di 25.000 contagi, arrivando in quel periodo a un totale di 67mila morti e 2,2 milioni di casi da inizio pandemia e, nel frattempo, era isolato a livello internazionale. I rapporti con l’occidente in quel periodo erano talmente tesi che l’Ayatollah Khamenei aveva esplicitamente vietato l’importazione e l’utilizzo di vaccini occidentali nel paese in quanto proveniente da “paesi inaffidabili”, mentre aveva puntato tutto su dosi prodotte in altri paesi, come Cina e Russia, e aveva accettato aiuto da parte di Cuba negli sforzi di produrre un vaccino iraniano. La convergenza Coronavirus-sanzioni americane è stata quasi fatale per la Repubblica Islamica, ma già prima della diffusione del virus essa versava in condizioni economiche critiche, in particolare uno dei principali settori dell’economia iraniana era stato colpito dalla guerra commerciale americana: quello petrolifero. Dopo la firma dell’accordo JCPOA del 2015 infatti i rapporti commerciali tra Iran e paesi europei si erano intensificati, la Repubblica Islamica era arrivata ad essere il terzo paese produttore di petrolio grezzo, dopo Arabia Saudita e Iraq, e nel marzo 2018 rappresentava il 4% della produzione globale, con 3,81 milioni di barili al giorno. Dopo l’imposizione delle sanzioni americane a seguito del ritiro dall’accordo la produzione del petrolio iraniano ha subito un importante calo e la sua esportazione ha deviato dall’Europa all’Asia, in particolare alla Cina.

Ora non resta che tenere i riflettori puntati su Vienna e sperare che quel «Nulla è concordato finché tutto non è concordato» si risolva in un accordo effettivo, come i pronostici degli speranzosi preannunciano.

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Francesca Campanini

Classe 1999. Bresciana di nascita e padovana d'adozione. Tra la passione per la filosofia da un lato e quella per la politica internazionale dall'altro, ci infilo in mezzo, quando si può, l'aspirazione a viaggiare e a non stare ferma mai.

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