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Dopo otto mesi di massacri a Gaza, a che punto siamo?

Bombardamenti su città e campi profughi, proteste represse nel sangue dalle manganellate della polizia e accesi scontri diplomatici: la questione Israele-Palestina non sembra vicina a una conclusione. Facciamo il punto della situazione, alla luce degli ultimi sviluppi.

16 minuti di lettura

Nella Striscia di Gaza non solo è iniziata, ma è ormai nel vivo la temuta offensiva israeliana via terra su Rafah, osteggiata da larga parte dell’opinione pubblica internazionale e persino dai governi occidentali alleati dello Stato Ebraico. In meno di un mese l’avanzata delle truppe israeliane nella città meridionale della Striscia ha provocato l’esodo verso nord di oltre un milione di sfollati che vi avevano trovato rifugio. Per molti civili palestinesi si tratta dell’ennesima fuga dalla distruzione che l’esercito occupante si è lasciato dietro durante la sua avanzata negli ultimi otto mesi, in cui ogni fase è stata preceduta da pesanti bombardamenti delle aree in cui penetrare e che ha provocato l’uccisione di oltre 36mila e cinquecento palestinesi.

Il massacro delle tende

Il 31 maggio, circa tre settimane dopo l’inizio dell’offensiva, Israele ha confermato pubblicamente di star operando militarmente nelle aree popolate di Rafah. A questo punto l’esercito israeliano ha infatti raggiunto Tal al-Sultan, area occidentale della città e luogo del “massacro delle tende” in cui l’aviazione israeliana, il 26 maggio, ha ucciso almeno 45 persone in una tendopoli adiacente a un campo profughi. Il massacro di civili, molti dei quali bruciati vivi nell’incendio scatenato dal bombardamento, è stato definito come un “tragico incidente” dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, utilizzando una formula che era stata impiegata anche in occasione dell’uccisione di 7 operatori umanitari di World Central Kitchen e che riverbera in generale tutte le volte in cui la gravità dei “danni collaterali” sacrificati all’altare dello smantellamento di Hamas ha suscitato ondate di indignazione internazionale. Eppure, anche questa volta, l’esercito dello Stato Ebraico ha rivendicato una vittoria: l’uccisione di due esponenti del gruppo armato palestinese al governo della Striscia prima del 7 ottobre.

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L’operatività di Hamas nella Striscia di Gaza

Secondo Israele gli ultimi battaglioni attivi di Hamas si troverebbero oggi a Rafah, motivo per cui un’offensiva via terra sulla città sarebbe imprescindibile per raggiungere l’obiettivo della sua guerra: annientare il nemico che ha organizzato l’operazione “Alluvione al-Aqsa” in cui il 7 ottobre sono stati uccisi 1.200 israeliani e catturati oltre 200 ostaggi tra militari e civili. Il fatto che Hamas nella Striscia non sia stato ad oggi totalmente sconfitto è evidente. A dimostrarlo è la morte durante questi otto mesi di 263 soldati israeliani, gli ultimi due uccisi a Jabalya settimana scorsa, ma anche, recentemente, la dimostrazione che sono ancora attivi alcuni siti dei gruppi armati palestinese per il lancio di razzi. Domenica 26 maggio, prima del massacro delle tende da parte israeliana, Hamas aveva rivendicato il primo lancio di razzi contro Tel Aviv dopo diversi mesi, che non ha causato vittime in Israele grazie al sistema di difesa Iron Dome.

Le altre operazioni israeliane a Gaza

Nel frattempo le ostilità a nord hanno visto come epicentro il campo profughi di Jabalya, dove l’esercito israeliano ha svolto un’operazione di venti giorni, che ha terminato il 30 maggio lasciandosi dietro 120 cadaveri solo tra quelli recuperati negli ultimi giorni dai soccorritori, uccisi dai bombardamenti senza tregua sferrati da Israele, come riporta al Jazeera. La fine, per il momento, dell’operazione a Jabalya ha ceduto il passo ad attacchi sul centro della Striscia, in particolare nelle aree popolate di Deir al-Balah.

La fame e gli aiuti umanitari

La speranza di molti civili nella Striscia resta il cessate il fuoco permanente e la fine di quello che esperti come la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati Francesca Albanese definiscono un genocidio perpetrato da Israele nei confronti del popolo palestinese. In questo drammatico contesto, le bombe e i carri armati non sono le uniche armi impiegate da Israele: la fame come strumento di guerra è ad oggi una tragica realtà nella Striscia. Ad aggravare questo aspetto, dall’inizio dell’offensiva via terra su Rafah, c’è il fatto che l’esercito israeliano si sia mosso per occupare il corridoio di Philadelphia, cioè la zona di confine tra Gaza e l’Egitto, prima di penetrare nelle aree più popolate della città. Così il 7 maggio, a un giorno dall’inizio dell’avanzata, Israele ha preso il controllo del valico di Rafah, arteria principale attraverso cui gli aiuti umanitari entravano faticosamente nella Striscia, blindando una via fondamentale per la sopravvivenza della popolazione palestinese. Israele ha così imposto il dirottamento dei beni di prima necessità verso i valici di Karem Shalom ed Erez.

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La Corte Internazionale di Giustizia vieta a Israele l’operazione a Rafah

Oltre alla situazione sul campo, questa guerra sembra giocarsi in parte sullo scenario internazionale, dove la reputazione di Israele, precedentemente considerato in Occidente come l’unica democrazia del Medioriente, si è decisamente incrinata. A dare un colpo di grazia in questo senso è stata, per esempio, la decisione della Corte Internazionale di Giustizia a gennaio di accogliere la richiesta del Sudafrica di processare Israele per genocidio e di imporre allo Stato Ebraico di astenersi da qualsiasi azione possa configurarsi come tale. Una decisione, quella dell’ICJ, sistematicamente ignorata dalle forze armate israeliane. La stessa Corte il 24 maggio ha anche emesso un ordine vincolante con cui imponeva a Israele di fermare l’invasione via terra di Rafah, aumentare la quantità di aiuti in entrata nella Striscia e di permettere a una commissione di inchiesta dell’ONU di andare sul campo per valutare le accuse di genocidio. L’ordine dell’ICJ rimane ad oggi lettera morta mentre l’offensiva sulla città di Rafah prosegue senza sosta.

La svolta della Corte Penale Internazionale

La Corte Internazionale di Giustizia non è l’unico organo giudiziario internazionale che si sta occupando della situazione a Gaza. Il 20 maggio Karim Khan, procuratore della Corte penale internazionale, ha chiesto l’emissione di mandati d’arresto per i leader di Hamas e Israele, contestando reati rientranti tra quelli definiti come crimini contro l’umanità e di guerra secondo gli articoli 7 e 8 dello Statuto di Roma. Il rapporto si concentra anche sull’utilizzo della fame come strumento di guerra e sull’aver ostacolato la consegna di aiuti umanitari alla popolazione civile.

Israele non ha mai ratificato lo statuto, ma la Corte può accusare anche i cittadini di uno Stato non membro, pur non avendo alcun mezzo di coercizione nei confronti di quest’ultimo per un’eventuale richiesta di estradizione. La decisione rappresenta un duro colpo per l’immagine internazionale di Israele che, per tutta risposta, ha invitato gli alleati a tagliare i finanziamenti alla Corte. Gli Stati Uniti hanno definito la decisione «oltraggiosa». Una forte opposizione all’attività della Corte penale internazionale da parte di Israele era cominciata già nel 2015, quando l’allora procuratore Fatou Bensouda aveva dato inizio ad alcune investigazioni preliminari sulla situazione in Palestina.

Attualmente, la decisione del procuratore Karim Khan è passata all’esame da parte di un collegio di tre giudici: se questi concorderanno che ci sono “ragionevoli elementi” per credere che siano stati commessi crimini di guerra e contro l’umanità, il mandato d’arresto potrà essere emanato. La fase decisoria può durare anche molti mesi.

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Gli USA e la necessità politica di un accordo

Negli Stati Uniti, Paese che rappresenta il principale alleato politico, economico e militare di Israele, negli ultimi mesi le proteste degli studenti universitari hanno raggiunto proporzioni tali che alcuni hanno paragonato il fenomeno alle contestazioni contro la guerra in Vietnam negli anni ’60. In una prima fase, la quasi totalità delle forze politiche ha criticato il fenomeno, assumendo poi toni lievemente più moderati al crescere della portata delle contestazioni. Hillary Clinton, durante un’intervista dell’emittente MSNBC, ha accusato gli studenti di ignoranza circa la storia del Medio oriente. Il senatore Bernie Sanders ha, invece, appoggiato le proteste affermando che gli studenti sono «dal lato giusto della storia».

Il Presidente Joe Biden, proprio a causa della politica estera in Medio Oriente, si ritrova a fare i conti con un brusco calo dei consensi della comunità arabo-americana, scesi al di sotto del 20% rispetto all’oltre 60% del 2020, e di quelli dei giovani studenti. A incidere pesantemente sull’opinione pubblica due recenti avvenimenti: la richiesta dei mandati d’arresto per i leader di Israele e Hamas da parte del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan e i massacri di Rafah in relazione ai quali un’inchiesta della CNN ha mostrato l’utilizzo di armi di fattura statunitense.

Agli inizi di maggio, Biden aveva dichiarato in un’intervista alla CNN che gli USA non avrebbero più fornito assistenza militare ad Israele se fosse stata lanciata un’offensiva su Rafah. Con l’inizio delle operazioni militari, tuttavia, questo non è accaduto e gli USA hanno affermato che non è stata oltrepassata la “linea rossa” annunciata da Biden.

Ma con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre e la necessità di aumentare il consenso tra le fasce in perdita diventa maggiormente pressante. Venerdì 31 maggio, in un discorso stampa alla Casa Bianca, Joe Biden ha annunciato una nuova proposta di cessate il fuoco in tre fasi tra Hamas e Israele, facendo riferimento anche alle proteste studentesche degli scorsi mesi. La proposta, definita come non differente dalla precedente da parte di molti analisti, ha visto il presidente americano esporsi in prima persona: un segnale che non è passato inosservato. Secondo quanto dichiarato da Josh Ruebner della Georgetown University ad Al Jazeera, il prolungarsi della guerra causerebbe anche la sconfitta di Joe Biden alle elezioni. Di conseguenza, il raggiungimento di un accordo “patrocinato” dalla presidenza americana rappresenterebbe un forte vantaggio in termini di consensi.

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L’Europa a metà

Il 28 maggio Spagna, Irlanda e Norvegia hanno riconosciuto ufficialmente la Palestina come uno Stato indipendente. A livello internazionale, l’eco della decisione (soprattutto di Spagna e Irlanda che sono membri dell’Unione Europea) è stata enorme, data la lontananza da quella linea politica comune europea apparentemente cristallizzata nelle parole della presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, pronunciate a ottobre ma mai ufficialmente mitigate, di «sostegno incondizionato a Israele». Attualmente, gli altri Paesi europei che, in passato, hanno già riconosciuto la Palestina sono: Svezia, Polonia, Cipro, Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia.

Pedro Sanchez, primo ministro spagnolo, con riferimento al riconoscimento dello stato palestinese ha parlato di atto di «giustizia storica» e di «requisito essenziale» alla pace.

Tutti i Paesi si riferiscono formalmente al territorio palestinese relativo ai confini antecedenti alla guerra dei sei giorni del 1967. Ma la vice-primo ministra Yolanda Díaz ha parlato di palestinesi liberi “dal fiume al mare”, espressione che si riferisce tradizionalmente al riconoscimento della Palestina secondo i confini storici. Una frase che ha attirato le ire di alcuni esponenti politici dello Stato Ebraico: Israel Katz, ministro degli esteri israeliano, ha paragonato la politica spagnola ad un leader di Hamas. In realtà, la decisione di tutti e tre Paesi ha attirato, in un modo o in un altro, forti critiche da parte di esponenti politici israeliani. Il riconoscimento da parte di questi Paesi, secondo alcuni analisti, potrebbe aprire le porte alla stessa scelta da parte di altri Stati europei: in primis la Slovenia, il cui riconoscimento appare imminente.

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In copertina: il campo profughi intorno agli edifici di Rafah, Gaza. Foto: Getty Images.

Francesca Campanini

Classe 1999. Bresciana di nascita e padovana d'adozione. Tra la passione per la filosofia da un lato e quella per la politica internazionale dall'altro, ci infilo in mezzo, quando si può, l'aspirazione a viaggiare e a non stare ferma mai.

Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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