Cenni biografici
Nato nel 1639 a La Ferté-Milon, Jean Racine rimane presto orfano. Viene affidato alla nonna materna, la quale decide di seguire la figlia a Port-Royal, intenzionata a prendere i voti. Qui, Racine entra in contatto con il mondo classico e riceve un’educazione giansenista, la quale influenzerà la sua produzione teatrale nonché l’elaborazione dei suoi personaggi.
«Degno figlio del padre che ti mise al mondo,
Libera l’universo da un mostro insolito,
La vedova di Teseo che osa amare Ippolito!
Quel mostro orrendo non ti deve sfuggire;
Ecco il mio cuore: qui devi colpire».(Fedra, atto II, scena V – Jean Racine)
Nel 1660 fa il suo ingresso nell’ambiente mondano parigino e si fa notare grazie a un’ode a Luigi XIV, patrocinato inoltre dall’amiciza con Henriette d’Inghilterra, moglie del Duca d’Orléans, Filippo di Francia. Nel 1663 rinnega la dottrina di Giansenio per dedicarsi all’attività teatrale, abbandonata poi in seguito all’incarico di storiografo ufficiale del re. Nel 1673 torna a scrivere drammaturgie ed è questo il periodo d’oro di Racine, coronato dal suo capolavoro, Fedra.
Muore nel 1699, dopo aver trascorso gli ultimi anni insieme a moglie e figli, sempre trascurati in nome del teatro.
Un genio rivoluzionario
Nonostante lo scopo deliberato, esplicitato più volte nelle sue Prefazioni, di piacere al pubblico (in particolare quello femminile, a capo dei salotti letterari dell’epoca), il drammaturgo si distanzia dal teatro di Corneille, suo contemporaneo. In particolare, Jean Racine rivendica la possibilità di una tragedia dalla trama spoglia: secondo la sua concezione, la complessità della vicenda è già contenuta nella situazione iniziale e nelle contraddizioni interne che subiscono i personaggi, consumati dai loro desideri e dall’impossibilità di appagarli.
Per quanto riguarda gli spazi, le scene raciniane si svolgono quasi tutte in spazi chiusi (riflesso della condizione vissuta dai suoi eroi) e gli eventi esterni sono ridotti al minimo. Il loro scopo è “semplicemente” quello di rompere l’equilibrio precario e di preparare la catastrofe, come una sorta di apocalisse nel corso della quale i personaggi rivelano tutto il loro essere.
Infine, fedele alla Poetica di Aristotele, i soggetti ideati da Racine sono ben diversi dagli eroi cornelliani: se quest’ultimo portava avanti l’idea dell’ “uomo illuminato”, ovvero l’eroe per eccellenza che si rivela al mondo in tutta la sua grandezza, per Jean Racine la maestosità sta proprio nella dignità – o nella mancata dignità – dei personaggi, vittime e carnefici grazie alle loro stesse mani. Questo è l’uomo naturale e l’uomo di cui si deve fare carico il teatro.
Una regina umana, troppo umana
Con Fedra (1677), Jean Racine si impegna nel ridare un nuovo volto e restituire dignità alla figura di una regina maltratta e incompresa per secoli dall’opinione pubblica. In particolare, il suo intento è quello di mettere in luce tutta l’umanità dell’amore di una donna maledetta, capace di rinunciare alla sua stessa vita pur di non sciogliere i “sacri voti” voluti dalla natura. L’amore che ella nutre per Ippolito (figlio di Teseo, suo marito) viene qui giustificato: come lei ha dovuto abbandonare Creta e la sua natura in nome dello sposo e di Atene, allo stesso modo il giovane – che ha per madre un’amazzone, dalla quale ha ereditato la fierezza e il pudore che lo porta a ripudiare i piaceri carnali – vive, qui, senza possibilità di esprimere la sua natura. O almeno, questo è quello che pensa Fedra.
Ma Fedra non ha colpe. Il suo amore non è altro che frutto della maledizione lanciata da Venere su sua madre, Pasifae, in seguito alla sua unione con il toro e alla nascita del Minotauro, essere immondo che per sempre segnerà le sorti della famiglia.
Nonostante questo, la regina di Jean Racine prenderà il comando: diversamente dalla Fedra di Euripide, in cui l’amore adultero e incestuoso viene rivelato da Enone, nutrice e confidente, qui è Fedra stessa a prendere la parola; ella rivela il suo amore a Ippolito tramite un’associazione di immagini e inneggiando a Teseo: nel figlio, la donna riconosce il marito e i suoi vecchi furori e, coerentemente con la sua età, se ne innamora. Questo è il primo segno, ben evidente, dell’apologia di Racine.
Altro segno lo abbiamo al momento della morte. In Euripide, Fedra si uccide dopo aver sentito Enone confessare tutto a Ippolito e dopo che quest’ultimo, pur col silenzio, la rifiuta. I due, quindi, non si incontrano mai. In Racine invece non solo i due si vedono e rivedono numerose volte, ma cambia addirittura il movente del suicidio. Se Euripide voleva il figlio di Teseo accusato di violenza sulla matrigna, qui Fedra si rivela candida e la colpa è invece affidata, se non gettata, sulla stessa nutrice: è lei ad aver parlato al Re, lei e nessun altro ha accusato Ippolito. Una regina non affermerebbe il falso e, così, Jean Racine scagiona Fedra. Ella è salva, può avere degna sepoltura nella mente del suo pubblico.
Lo sguardo che abbraccia e condanna
L’insegnamento di Jean Racine è da ricercare nella sua personalissima poetica degli sguardi. Contrariamente all’eroe di Corneille capace, alla fine della tragedia, di farsi carico della salvezza del mondo (in quanto portatore di luce, di verità) solo attraverso lo sguardo e il riconoscimento altrui, i personaggi raciniani vengono condannati, soprattutto da loro stessi. Lo sguardo di Racine non è uno sguardo che conosce ma che desidera, e proprio la bramosia costituisce il carattere oscuro dei suoi personaggi, destinati a riempire, attraverso lo struggimento, gli spazi vuoti della scena. La parola scompare per lasciare spazio al gesto del vedere e, attraverso questo, i personaggi si trovano davanti alla concretezza della passione, correndo così verso l’inevitabile morte. Il desiderio si avventa sulla propria preda, non vi trova che il dolore – il proprio – che rende più acuto nella misura in cui si ostina, divenendo allora furia distruttrice. Diversamente dall’eroe di Corneille, che nella gloria vede gli altri senza però poterli raggiungere, Fedra vede se stessa, la sua follia, senza riuscire a raggiungersi. Secondo l’insegnamento di Jean Racine, dunque, la regina morirà lasciandoci una grande consapevolezza, in linea col pensiero giansenista: la passione acceca, distrugge tutto quello che trova. Se sia colpa dell’uomo o del divino? Questa è la sua eredità letteraria.