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Joseph Koudelka, Prague Photographer

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«Quando sono stanco mi corico e se ho voglia di fotografare e non c’è nessuno attorno a me, fotografo il mio piede. Non sono grandi foto: certi le detestano. Ma ho sempre fotografato i luoghi in cui ho dormito, gli interni in cui mi sono trovato. È una regola che mi sono data, per non dimenticare queste cose».

La macchina fotografica è uno strumento testimoniale eccezionale, un filo diretto con la realtà e con la vita. Ed è proprio la vita, in tutte le forme in cui si presenta, che il fotografo ceco Joseph Koudelka, munito unicamente del suo grandangolare, vuole rappresentare.

Nato il 19 gennaio 1938 a Boskovice, piccolo centro della Moravia, nell’ex Cecoslovacchia, acquista la sua prima macchina fotografica di bachelite a dodici anni. Esercita, dunque, fin da piccolo la sua passione per la fotografia che non abbandona neanche quando, ormai adulto, consegue la laurea di ingegnere aeronautico presso l’università di Praga. Esercita la professione fino al 1967. Intanto, dal 1961 fino al 1970, si interessa ai gitani della Cecoslovacchia e della Romania: la mancata stigmatizzazione di questi popoli a problema sociale, evitata anche grazie alla grande espressività data dall’occhio del fotografo, è una peculiarità di queste serie fotografiche, tra le più riuscite del secolo scorso. Ma sicuramente la sua più nota testimonianza è legata agli eventi della Primavera di Praga nell’agosto del 1968: i suoi scatti forniscono un importante scorcio della tragicità di quegli eventi; egli è non solo fotografo ma in primo luogo cittadino ceco. Le sue fotografie giungono presto per vie clandestine alla sede newyorkese della Magnum Photos, una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo, che si premura di farle pubblicare sul periodico inglese The Sunday Times. La firma riportata dalle immagini omette il suo nome al fine di evitare ritorsioni: è dichiarata solo una sigla, P.P Prague Photographer. Dovranno trascorrere sedici anni per il riconoscimento effettivo dello scottante reportage: solo nel 1984, infatti, Joseph Koudelka ne ammetterà la paternità.
L’instabile situazione politica lo costringe nel 1970 a lasciare Praga per partire alla volta di Londra, tappa momentanea del suo instancabile viaggio in giro per l’Europa. È un esule e le fotografie parlano dell’esilio. Il logorare del tempo, oggetti scalfiti dalle difficoltà, l’alienazione dell’essere umano in paesaggi desolati: nasce così Exils nel 1988, forse il suo libro più famoso. Koudelka grazie alla grande capacità espressiva delle sue opere inizia a ricevere molti riconoscimenti internazionali ed entra a far parte dell’agenzia Magnum.
Nel 1968 c’è un’altra svolta nel suo percorso: inizia ad utilizzare la macchina fotografica di formato panoramico con cui rappresenta gli effetti negativi delle opere dell’uomo sulla natura.

«Io sono semplicemente uno che ha avuto fortuna. Perché, all’inizio, ero ingegnere aeronautico e potevo fare fotografie senza aver bisogno di essere pagato. Poi ho continuato ad avere fortuna, avendo potuto lavorare per diciott’anni senza fare neanche un solo lavoro su commissione».

1966, Cecoslovacchia
1966, Cecoslovacchia

In primo piano tre musicisti gitani presso un rinomato festival folkloristico nella Bassa Moravia; alle loro spalle, la folla. «Una volta mi è successa una strana storia. Mi trovavo vicino a Roma con un pellegrinaggio di Zingari iugoslavi, organizzato da alcuni preti cattolici. Non erano veri preti: indossavano abiti civili e lavoravano per guadagnarsi da vivere, ma erano persone molto simpatiche. Parlando con me, capirono che ero l’autore del libro sugli Zingari. Mi hanno raccontato che ne avevano ricevuto una copia e che ne avevano tagliato le pagine per incollarle ai muri di una baracca che avevano adibito a cappella. E su ogni foto gli Zingari avevano scritto il nome di qualcuno che conoscevano».

1960, Cecoslovacchia
1960, Cecoslovacchia

In quest’immagine invece vince la distorsione, il paesaggio urbano annega nella nebbia fitta che rende indistinguibile il soggetto sulla destra; il passante non sembra quasi più una figura umana, è un fantasma che si allunga e si sfalda nello sfondo. La messa a fuoco si concentra sulla strada in primo piano ed esclude persino la vicinissima panchina, quasi lo sguardo umano non sia in grado di andare oltre, quasi si debba necessariamente limitare a un raggio di pochi metri, a una capacità visiva sempre più ridotta in un mondo senza più contorni definiti. Qualcuno passeggia, da solo. Come se la solitudine fosse l’unica scelta, se la verità non è visibile.

Quanto velocemente scorrono le lancette di un orologio per un ceco durante la Primavera di Praga? Molto lentamente, certo, durante le attese trepidanti. E molto velocemente durante gli scontri insanguinati. La fotografia, comunque, le immortala immobili: dal 1968 quelle lancette non si sono mosse di mezzo millimetro. Perché la Storia non dimentica i carri armati sovietici, e tanto meno lo può fare chi vede la propria patria invasa. Il Tempo osserva dall’alto la città, immobile.

1968, Praga
1968, Praga

Infine ecco i funerali di Jan Palach, lo studente che si è dato fuoco in segno di protesta contro l’invasione sovietica. Salta all’occhio la simmetria: un muto ordine che accompagna il cordoglio per una giovane vita spezzata in nome della libertà.

«È stato il momento massimo della mia vita. In dieci giorni è successo tutto quello che nella mia vita poteva succedere. Io stesso ero al massimo in una situazione che era al massimo. Forse è per questo che ho coperto questa situazione meglio dei reporter che erano arrivati da ogni parte del mondo e che lo facevano per mestiere. Io non ero un foto-giornalista. […] Perché io non sono stato paracadutato a Praga, come gli altri. Io ero un cecoslovacco, il paese era quello di cui parlavo la lingua, i problemi della Cecoslovacchia erano i miei. E lavoravo per me stesso».

25 gennaio 1968, funerali Palach
25 gennaio 1968, funerali Palach

 

 

 

 

 

Camilla Volpe

Classe 1995. Prima a Milano, ora sotto il Vesuvio - almeno per un po'. PhD candidate in Scienze Sociali e Statistiche. Mamma e papà non hanno ancora capito cosa faccio nella vita.