Martedì 18 Agosto Khaled al-Asaad, l’ottantaduenne archeologo e responsabile del sito archeologico di Palmira fino al 2003, è stato decapitato pubblicamente e appeso ad un palo della luce dai jihadisti dello Stato Islamico.
A dare per primo la notizia è stato il direttore delle Antichità e dei Musei siriani Maamoun Abdulkarim, il quale ha spiegato che l’archeologo era stato arrestato dai miliziani dell’Isis il mese scorso, reo di aver nascosto alcuni importanti reperti romani prima della conquista dell’antica città, avvenuta lo scorso maggio. Insieme al corpo è stato ritrovato un foglio che riporta i cinque capi d’imputazione che hanno spinto i suoi aguzzini all’esecuzione. Per quanto concerne i primi due, Asaad viene definito «rappresentante della Siria nelle conferenze della blasfemia» – ovvero le conferenze sulle opere d’arte pre-islamiche o raffiguranti divinità, blasfeme agli occhi del fanatismo islamico – e «direttore delle statue archeologiche di Palmira», un sito tanto odiato dagli iconoclasti.
Se i motivi sopra citati sono di matrice religiosa, i restanti sono squisitamente politici: egli «ha visitato l’Iran partecipando alla festa per la vittoria della rivoluzione di Khomeini» ed è stato considerato «fondatore della Repubblica islamica iraniana di confessione sciita» e, infine, l’accusa riguardante i suoi legami con esponenti del regime di Damasco. L’archeologo è stato ingiustamente bollato come sciita, sebbene non lo sia mai stato, ma era alleato di Teheran (legami inevitabili, data la rilevanza del suo ruolo da direttore).
La conquista di Palmira, antica città romana, dichiarata nel 1980 dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, è valsa allo Stato Islamico il controllo di più di metà Siria: un’area vastissima che comprende quasi interamente i territori confinanti con l’Iraq – ad eccezione dei baluardi difesi dalle forze curde nella zona nord-orientale – e in continua estensione verso ovest, in direzione di Damasco, e verso nord, attorno ad Aleppo. Una posizione strategica, dunque, in cui è situata lungo la strada principale che attraversa il deserto, collegando Damasco alla città occidentale di Homs e a quella orientale di Deir ez-Zor, e vicina ad alcuni stabilimenti di gas e a diverse strutture dell’esercito.
Da mesi il sito archeologico è perciò in stato d’allarme, in quanto si teme che i seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi possano commettere, in nome dell’inamissibilità dell’esistenza di edifici di epoca pre-islamica, il medesimo scempio realizzato nei siti archeologici di Hatra e Nimrud in Iraq dove, armati di asce, picconi e kalashnikov hanno distrutto reperti di inestimabile valore.
Palmira vanta, infatti, delle origini molto antiche: essa era già conosciuta con il nome di Tadmor nel lontano II millennio a.C. La città nel 19 d.C. venne annessa alla provincia romana di Siria e in quegli anni lo scrittore Plinio il Vecchio, nel suo Historia Naturalis, evidenziò la ricchezza del suolo e il suo ruolo di principale via di commercio tra Persia, India, Cina e l’Impero.
All’interno del sito è presente il Santuario di Beel – assimilato a Zeus – consacrato tra il 32 e il 38 d.C., è contorniato da un recinto sacro che comprendo un alto muro di cinta esterno, affiancato da un portico sorretto da un doppio colonnato. Esso disponeva di un ingresso monumentale, modificato dagli Arabi quando lo hanno trasformato in una fortezza.
La via colonnata, ultimata nel II secolo d.C., ha inizio di fronte all’ingresso del santuario e si conclude con l’arco severiano a tre fornici, congegnato per mascherare una deviazione di 30 gradi del secondo tratto dalla via. Oltrepassato l’arco, sulla sinistra si trova il santuario di Nabu, una divinità mesopotamica assimilata ad Apollo, edificato tra la fine del I secolo e la metà del II secolo d.C.
Di fronte al tempio, invece, sono collocate le terme di Diocleziano, risalenti anch’esse al II secolo d.C., e il loro ingresso è formato da quattro colonne monolitiche di granito egiziano. Altri edifici di lascito romano sono il teatro romano, della seconda metà del II secolo, l’agorà dalla pianta quadrangolare, con i portici sui quattro lati, e il piccolo senato, che aveva un vestibolo ed una corte interna.
Infine, si trova un altro santuario, dedicato però a Baalshamin (il signore del cielo) – divinità accostabile ad Ermes – consacrato nel 130 d.C. e gestito da una tribù nomade.
Khaled al-Asaad aveva dedicato la sua vita a questo sito archeologico di inestimabile valore, essendone stato il direttore per quarant’anni, e anche dopo il pensionamento aveva continuato a lavorare come esperto per il Dipartimento dei musei e delle antichità. Autore di diversi libri e testi scientifici, talvolta anche in collaborazione con autori stranieri, grande conoscitore della lingua antica e brillante epigrafista, pur di salvare i gioielli della sua amata città, ha compiuto un sacrificio estremo.
Purtroppo Khaled al-Asaad non è l’unico archeologo finito nelle grinfie dell’Isis e, infatti, durante un’intervista alla televisione panaraba Al Jazeera, l’ex dirigente del Dipartimento generale dei musei e delle antichità della Siria Amr al-Azm ha lanciato l’allarme: secondo lui molti archeologi sono stati catturati negli ultimi tempi, mentre altri sono stati sottoposti a pressioni perché «ritenuti in possesso di informazioni su antichità nascoste, di cui i jihadisti vogliono impadronirsi». Amr al-Azm ritiene che Asaad sia stato arrestato perché ritenuto responsabile dell’evacuazione di molti reperti dal museo di Palmira, prima dell’arrivo dei jihadisti del maggio scorso.
Maria Teresa Grassi, l’ultima archeologa italiana ad aver lavorato nel sito di Palmira – dove fino al 2010 guidava la missione dell’università di Milano – sostiene che la decisione dell’archeologo di rimanere in città sia comprensibile solamente tenendo presente lo stretto rapporto d’affetto che lo legava al luogo, in quanto quella città era tutta la sua vita: con dedizione ed impegno, Khaled al-Asaad aveva portato avanti la sua passione, aiutato anche dai suoi due figli – entrambi archeologi – ed era divenuto una figura importante degli ultimi 50 anni della scuola di scavi. Era, insomma, la memoria storica del sito: di Palmira conosceva ogni angolo, ogni vicenda ed ogni pietra; aveva visto tutto e collaborato con tutti. Era un archivio vivente.
Il mondo dell’arte, della cultura e dell’archeologia ha perso un grande uomo, che non ha mai lasciato la passione e che ha lottato fino all’ultimo per difendere ciò che amava: un guardiano della bellezza insidiata dalla furia disumana e incomprensibile, che non risparmia nemmeno le opere d’arte o i siti archeologici.
Tutti i musei e i luoghi di cultura italiani hanno deciso di esporre la bandiera a mezz’asta in segno di lutto, ma forse, come sostiene Michele Serra sull’ Amaca della Repubblica, non è abbastanza:
Se il direttore del Louvre o di Pompei o del Prado venisse sgozzato in pubblico e il suo cadavere appeso ad una colonna, con l’accusa di aver difeso il Louvre, Pompei, il Prado e l’arte in essi contenuta, noi saremmo così pieni di orrore e di rabbia che per giorni l’apertura dei telegiornali, e le prime pagine dei giornali, non parlerebbero d’altro. E nei parlamenti, infocati dall’emergenza, sarebbe quello l’argomento che tiene banco. Non è stato così per la morte atroce del professor Khaled al-Asaad, direttore del sito storico di Palmira (uno dei più importanti beni archeologici al mondo), assassinato dall’organizzazione genocida che si fa chiamare Stato Islamico. È ufficiale: noi europei siamo razzisti. Non sappiamo riconoscere “crimini contro l’umanità” se non rivolti contro noi stessi, non sappiamo riconoscere “umanità” se non in noi stessi, e vera cultura se non a casa nostra. Khaled al-Asaad è un martire della cultura e un eroe planetario, il suo volto e il suo nome dovrebbero campeggiare in ogni piazza civile del mondo. Anche Sarajevo fu città martire nella quasi indifferenza di governi e Stati maggiori europei. Ed era sotto il nostro naso. Figuriamoci Palmira, che è in fondo al deserto, figuriamoci il professore arabo morto perchè difendeva, tra le altre cose, anche le vestigia delle civiltà classica. Che sarebbe la nostra, almeno così ci dicevano a scuola.
Nicole Erbetti
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