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© Agneza Dorkin

Koltès. Il misterioso commercio dei rapporti umani

7 minuti di lettura

Bernard-Marie Koltès, chi era costui? Molti forse lo avranno sentito nominare per la prima volta grazie al monologo recitato da Pierfrancesco Favino sul palco dell’Ariston, al Festival di Sanremo,  La notte poco prima delle foreste (1977).

Cinque intensi minuti di vero teatro sul palco più nazionalpopolare d’Italia hanno dato la miccia a un dibattito divisivo: è giusto proporre il teatro in tv, e soprattutto in un appuntamento tutto lustrini e apparenza? Non si rischia di banalizzarlo, appiattirlo, privarlo di quella ritualità che lo caratterizza? L’esposizione televisiva funziona come atto “blasfemo” oppure può accendere interesse e portare nuovo pubblico al teatro?

La risposta non può essere univoca, ma la coincidenza è senz’altro favorevole per assaporare dal vivo un testo di Koltès al teatro Out Off di Milano fino al 4 marzo, Nella solitudine dei campi di cotone.

Koltès, il «desperado gioioso»

Koltès è uno dei maggiori drammaturghi francesi del XX secolo, un «desperado gioioso», come lo ha definito Patrice Chéreau, che ha messo in scena i suoi testi. Nasce nel 1948 a Metz, da una famiglia borghese e in un ambiente oppressivo, finché a vent’anni arriva la folgorazione per il teatro, che diventa ossessione e rivolta.

Una vita inquieta: la fuga del viaggio, il buio della droga, il tormento di dover spiegare la propria omosessualità, il dramma dell’AIDS, che lo porterà via a soli 41 anni, nel 1989. Le sue opere (in totale quindici, fra cui meritano menzione almeno Lotta di negro con cani, 1983; Robert Zucco, 1990) partono da tensioni reali (razzismo, violenza, emarginazione) per aprirsi poi a profondità metafisiche, grazie all’uso di una lingua raffinata, limpida, tagliente e a tratti poetica.

Koltès
© Francesca Marta

Nella solitudine dei campi di cotone

Il testo Nella solitudine dei campi di cotone è difficile e bellissimo, un banco di prova importante per gli attori. Sessanta minuti soltanto, ma densissimi, in cui i dialoghi sono in realtà lunghi monologhi alternati. Lo spettatore viene inondato da un fiume di parole, cerca appigli per comprendere la situazione paradossale, ma tracce e indizi continuano a confondersi.

L’enigma comincia fin dal Prologo, che spiega la parola inglese “Deal” (la definizione scorre proiettata sullo schermo): una transazione commerciale di prodotti illeciti, che avviene «in spazi neutri, indefiniti e non previsti per questo uso, tra fornitori e postulanti, per tacita intesa, segni convenzionali o conversazioni a doppio senso».

Ai lati della scena, su alti steli di fil di ferro, sono disseminati i fiori di cotone, che lasciano il posto, al centro, a uno spazio esagonale sormontato da una struttura sospesa e incombente, anch’essa esagonale (tubi intrecciati a cui sono sospesi neon). Sarà in questo vuoto geometrico che si svolgerà l’incontro fra i due protagonisti.

È il crepuscolo, o meglio, l’ora strana in cui i rapporti fra gli uomini e fra gli animali si fanno selvaggi. Nell’esagono-ring arrivano il Dealer, cioè il venditore, e il Cliente, entrambi senza nome. Hanno un appuntamento o sono lì per caso? Inizia uno scontro verbale che dovrebbe ruotare intorno alla transazione commerciale, ma si avviluppa e si sfrangia in riflessioni più ampie.

Tutto si gioca sulla reticenza: il venditore non dirà mai qual è il prodotto che vuole vendere (droga, sesso, o addirittura la vita?), e il Cliente rifiuta di ammettere che vorrebbe acquistare. L’uno utilizza lusinghe insinuanti e seduttiveio sono qui per riempire l’abisso del desiderio»), promettendo di poter soddisfare ogni brama nascosta; l’altro respinge con argomentazioni razionali, opponendo al buio del commercio illecito la sicurezza della legge e della luce elettrica.

Ma i piani scivolano, i rapporti di forza sono pronti a rovesciarsi. Si riflette sul desiderio, sull’ingiustizia (fra chi ha e chi non ha), la sofferenza, ma i toni a tratti si accendono, l’affettazione cordiale cede il posto alla logica dell’intimidazione, e comprendiamo che questo è un duello, le domande e le risposte disegnano affondi e schivate.

Un applauso va senz’altro al regista Roberto Trifirò, che sceglie di affrontare un testo quasi filosofico, e agli attori, che tuttavia appaiono troppo controllati. La potenza incandescente delle parole di Koltès ha bisogno di diventare carne sulla scena. In questo caso invece il diluvio di parole sembra sovrastare il gesto teatrale, che invece potrebbe amplificare il valore graffiante, la duplicità beffarda di diplomazia e violenza e la tensione sospensiva del duello verbale.

Koltès
© Francesca Marta

La metafora del commercio

Questo strano commercio di cui si continua a parlare ma che non ha realizzazione concreta, è metafora di ogni rapporto umano: l’incontro con l’Altro crea inquietudine, senso di ostilità e repulsione, istinto all’attacco. Koltès illustra l’antico homo homini lupus delineando un’ora liminare, in cui i grugniti degli animali selvaggi preludono allo scoppio della violenza anche fra umani.

Nel suo romanzo incompiuto Prologo (ed.Guida, 1992), Koltès sintetizza: «La prima mossa dell’ostilità, subito prima del colpo, è una calcolata sospensione del tempo. […] Lo scambio di parole serve solo a guadagnare tempo prima dello scambio dei colpi» (p.90). Dunque le parole, che pure già trasudano violenza, nella pièce delineano ancora per poco la coltre civilizzata di un’umanità pronta a scattare nello scontro bestiale.

 

Nella solitudine dei campi di cotone
di Bernard-Marie Koltès
regia di Roberto Trifirò
con Stefano Cordella, Michele Di Giacomo
fino al 4 marzo 2018, Teatro Out Off, Milano

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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