Non è facile recensire un romanzo come La forma minima della felicità, primo romanzo di Francesca Marzia Esposito edito da Baldini&Castoldi. Si può partire dicendo che è un romanzo intimista, che descrive il mondo che la protagonista Luce Martini, vede attraverso il filtro del suo sguardo, così allenato a cogliere le sfumature nei piccoli gesti, così insofferente a tutto ciò che è plateale, prevedibile, precostiutito e cerimonioso. La verità del mondo, che è poi la verità dei rapporti non sta lì, in quegli show orchestrati per compiacere alla finzione della superficie del mondo e infatti Luce, che dopo una brutta delusione d’amore vive in un’apatia che sembra senza via di fuga, ritrova man mano il contatto con il mondo e la fiducia nell’uomo grazie alla convivenza “forzata” con la figlia di Yuri, suo fratello, che, senza accorgersene, ha sempre preso lo spazio di Luce in famiglia. Bambina, con la “B” rigorosamente maiuscola come viene chiamata in gran parte del romanzo, non pretende niente da Luce. Non le dice, come invece fa sua madre, di sorridere ogni tanto, di “tirarsi su”, ma si avvicina a lei, la segue, veglia su di lei come un angelo e nel contatto con Viola (nome vero di Bambina), fatto spesso di sguardi, silenzi e piccoli gesti, Luce ascolta una musica immaginaria mai udita, vede immagini che aveva scordato e riesce anche a riconciliarsi con sua madre con la quale aveva solo un carico di sentimenti inespressi che appesantivano il rapporto e lo rendevano intriso solamente di frasi fatte e convenevoli.
In fondo chi meglio dei bambini ci può aiutare a recuperare un po’ di verità? Loro, che vedono le cose per come stanno sempre e non fanno nessun calcolo nell’offrire la loro amicizia a qualcuno, sono in grado di ridonare ad un adulto deluso dalla vita una forza nuova a trasformare i giorni tutti uguali tra loro in giorni più sopportabili riuscendo addirittura a far recuperare l’aspettativa nel domani. La situazione di Luce è una fase, o una stasi, in cui possiamo trovarci tutti nella vita e che anzi può perdurare per tutta la vita, semplicemente perché la felicità non è sempre una questione di volontà nostra, ma più spesso la felicità è una questione di verità nei rapporti con gli altri e con il mondo. La staticità che si sovrappone alla consapevolezza del tempo che passa, costruisce con quest’ultima una sorta di circolo vizioso che si nutre giorno dopo giorno di un niente pieno di riflessioni che immobilizzano ancora di più e chi ne soffre è il primo a volerne uscire ma spesso si trova come incastrato tra sé e il mondo, perché non ci sono né cure né altro ai giorni che sembrano tutti uguali senza un obiettivo, dove tutto sembra essere avulso dai concetti di speranza, volontà e compagnia bella. Serve un linguaggio a parte, poco noto e costruito su di sé e sulla propria esperienza percettiva, per descrivere quella stasi che tutti prima o poi proviamo e Francesca, tra giochi di parole e sillogismi degni di Apollinaire, ci riesce perfettamente, facendoti trovare disseminate qua e là nel romanzo frasi che ti sorprendono per quanto riesci a sentirle tue e che ti costringono a fermarti, rileggerle, appuntartele e tenertele da parte per i momenti difficili.
Susanna Causarano
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