La gamification: quando tutto diventa un gioco (e noi non ce ne accorgiamo)

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Apri Instagram e la prima cosa che vedi è il numero di “mi piace” del tuo ultimo post. Controlli l’app della palestra per vedere quanti passi hai fatto oggi. Vai al supermercato e accumuli punti con la tessera fedeltà. Senza nemmeno rendertene conto, la tua giornata è disseminata di piccole sfide, ricompense e classifiche che trasformano ogni attività quotidiana in una sorta di videogame.

Benvenuti nell’era della gamification, dove tutto quello che facciamo viene trasformato in un gioco. E no, non stiamo parlando solo dei bambini che giocano con lo smartphone: stiamo parlando di noi adulti, perfettamente consapevoli (o almeno così crediamo) che ci facciamo trascinare in meccanismi progettati per tenerci incollati a schermi, app e comportamenti di consumo.

La gamification non è nata ieri. I primi esempi risalgono agli anni ’80 con i programmi frequent flyer delle compagnie aeree, ma è con l’avvento del digitale che ha davvero preso il volo. Oggi è ovunque: dalle app per imparare le lingue che ti danno “streak” giornalieri, ai social network che ti mostrano quanti “amici” hai conquistato, fino ai supermercati che ti regalano buoni sconto per ogni acquisto.

Il principio è sempre lo stesso: trasformare un’attività potenzialmente noiosa in qualcosa che attiva i centri del piacere nel nostro cervello. È come se qualcuno avesse scoperto il codice segreto della motivazione umana e lo stesse usando su scala industriale.

Ma funziona davvero? Beh, il fatto che tu controlli compulsivamente le notifiche del telefono anche quando sai che probabilmente non c’è niente di importante dovrebbe darti una risposta abbastanza chiara.

Dietro ogni meccanismo di gamification c’è una profonda comprensione della psicologia comportamentale. Gli sviluppatori studiano quello che gli psicologi chiamano “rinforzo intermittente”: se non sai mai quando arriverà la prossima ricompensa, continui a provare. È lo stesso principio che rende così coinvolgenti i gratta e vinci, le slot machine e, più in generale, tutti quei sistemi che alternano piccole soddisfazioni a momenti di attesa.

Le aziende tech lo sanno bene. Non è un caso che molte app utilizzino meccanismi simili a quelli dei tradizionali bonus casino, dove piccole ricompense casuali mantengono alto l’interesse dell’utente. La differenza è che invece di puntare soldi, puntiamo il nostro tempo e la nostra attenzione.

E qui casca l’asino: mentre siamo tutti bravissimi a riconoscere quando qualcuno sta cercando di fregarci con una telefonata commerciale, facciamo molto più fatica a renderci conto quando un’app ci sta manipolando con suoni, colori e notifiche progettate per creare dipendenza.

Il problema non è il gioco in sé. I giochi sono divertenti, stimolanti, e possono anche essere educativi. Il problema sorge quando meccanismi ludici vengono applicati a contesti che dovrebbero rimanere seri. Quando il tuo capo ti dice che l’ufficio ha “gamificato” la produttività e ora devi competere con i colleghi per vendere di più, qualcosa non quadra.

O quando scopri che tuo figlio di dieci anni sa già tutto sui “loot box” e sui sistemi di ricompensa random, ma non sa ancora fare una divisione senza calcolatrice. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in un mondo dove insegniamo ai bambini i meccanismi del gambling prima della matematica di base.

Viviamo ormai in una società dove tutto ha un punteggio. I tuoi passi giornalieri, i tuoi follower su Instagram, il tuo punteggio di credito, la valutazione del tuo profilo su LinkedIn. È come se la vita fosse diventata un gigantesco arcade dove l’obiettivo è sempre battere il record precedente.

Questa mentalità ha certamente dei lati positivi: può motivarci a fare più esercizio fisico, a imparare nuove competenze, a essere più produttivi. Ma ha anche creato una generazione di persone ansiose che misurano il proprio valore attraverso metriche digitali e che hanno perso il piacere di fare le cose semplicemente perché vale la pena farle.

Quando tutto diventa un gioco, niente è più davvero un gioco. E quando ogni comportamento viene misurato e quantificato, perdiamo quella spontaneità che rende la vita interessante.

Ovviamente non è questione di tornare all’età della pietra e abbandonare ogni forma di tecnologia. La gamification, usata bene, può davvero aiutarci a migliorare alcuni aspetti della nostra vita. Il punto è sviluppare una maggiore consapevolezza su quando stiamo giocando volontariamente e quando invece stiamo venendo giocati.

La prossima volta che apri un’app e vedi notifiche, badge e punteggi lampeggianti, fermati un attimo e chiediti: questo strumento mi sta davvero aiutando a raggiungere i miei obiettivi, o mi sta solo tenendo impegnato per vendere la mia attenzione al miglior offerente?

Perché alla fine, il gioco più importante da vincere è quello di rimanere padroni delle proprie scelte. E questo, purtroppo, non lo insegnano in nessuna app.

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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