di Luca Bonazzi
Tradizionalmente, il discriminante tra scultura ed architettura è l’esistenza di uno spazio interno abitabile. Non mancano però edifici in cui questa differenza, pur senza venir meno, si assottiglia: tra i più famosi e celebrati esempi di questa felice eccezione, il Palazzo Ducale di Venezia. In tutte le sue molteplici edificazioni, infatti, maestranze architettoniche hanno collaborato spalla a spalla con artigiani e scultori. L’edificio stesso, il terzo museo più visitato della penisola dopo i Vaticani e gli Uffizi, deve sicuramente gran parte della sua notorietà presso il pubblico internazionale al suggestivo impatto nella visuale di Piazza San Marco (Canaletto docet, con le sue celebri vedute). Due fattori che affiancano nella sua realizzazione architettura e scultura, arti storicamente contigue ma sempre segnate, perlomeno sotto il profilo teorico, da un solco distintivo, decisivo, radicale.
Palazzo Ducale è frutto di continui rifacimenti stilistici, avvenuti dal IX al XVII secolo, per lo più ad opera di maestranze locali e oggi poco note in una sorta di grande e continuo cantiere. Sono pochi e contraddittori i nomi che emergono dagli studi archivistici, a testimonianza di una fabbrica complessa, un’edificazione sofferta, una pluralità di contributi confluiti in un risultato unico e spettacolare. Il tutto era volto a un costante adattamento dell’edificio alle tendenze stilistiche del momento, in continua evoluzione, e alle sempre più ambiziose esigenze della cittadinanza, desiderosa di manifestare il proprio potere politico ed economico. In tal senso, siamo di fronte a un altissimo simbolo dello spirito che animò la Serenissima negli anni del suo potere sul Mediterraneo, frutto di continui contrasti e di una grande ambizione. Un’architettura veramente “figlia del suo tempo” e comunque capace di superarlo, fino a formare un indiscusso riferimento estetico a cui si ispireranno i secoli successivi (un esempio su tutti, il liberty).
Il Palazzo Ducale è un capolavoro assoluto del gotico veneziano che spicca per qualità e vastità del decoro, con forme orientali e sapori germanici, chiaro simbolo della molteplicità e dell’ecletticità dei rapporti commerciali e culturali della città veneta. Le sue facciate, tutte ogive, cuspidi ed edicole, sono contraddistinte lungo la loro estensione (18 arcate sulla Piazzetta, 17 sulla Laguna) da un elegante gioco di volumi, consentito dallo stesso stratagemma che rese possibili le più ardite cattedrali gotiche: l’arco a sesto acuto. A questo si aggiunge una struttura in muratura, distante dal colonnato abbastanza da risultare invisibile alla folla adunata in piazza per via della scarsa illuminazione della sua superficie. Così, la grande massa del secondo e del terzo piano, unificata in un blocco solo, pare sorretta soltanto dagli esili colonnati del piano terra e del primo piano. Ancora una volta, a Venezia domina il tema della pesantezza, un assurdo in una città sorretta dall’acqua o, a voler dissacrare il mito, su tronchi di larice coperti di pece e pietra d’Istria. Il tutto sapientemente celato, in modo da stupire ogni volta.
Su questo arguto paradosso ebbe modo di riflettere uno tra i più grandi creativi del nostro tempo, il pluripremiato architetto Oscar Niemeyer, spentosi a Rio de Janeiro quattro anni fa all’età di 105 anni. Sua la frase: «L’architettura è solo un pretesto, importante è la vita, importante è l’uomo, questo strano animale che possiede anima e sentimento, e fame di giustizia e bellezza». Con essa inaugura il manifesto “Il mondo è ingiusto”, testamento artistico e morale di un protagonista della sua epoca.
Anche nella sua opera architettura e scultura si fondono e integrano, potenziandosi a vicenda: ogni suo progetto è frutto di un’immagine, di una forma sensuale tracciata in aria, di una suggestione luminosa sbozzata lentamente, configurata nella meditazione in forme sempre meno astratte, fino a farsi spazio e azione.
A Palazzo Ducale, Niemeyer fa per sua stessa ammissione continuo riferimento nelle sue produzioni teoriche e nei suoi interventi pubblici. Ne apprezzava da una parte la cura del materiale, il suo uso plastico (simile a quello che egli stesso seppe fare del cemento armato), dall’altra l’arditezza nella disposizione delle masse, capace di vincere gli schemi convenzionali nella progettazione e, appunto, antitetica all’uso palladiano di collocare «ciò che è pesante in basso», borghese ed inflazionato.
Evidente l’influsso di Palazzo Ducale anche nell’opera dell’architetto brasiliano: bastino come esempi i Palazzo de Planato e l’Alvorada, edificati a Brasilia, la capitale nella cui integrale progettazione ebbe modo di mettere in campo tutte le sue concezioni teoriche in ambito architettonico e antropologico. Altra sua importante realizzazione è la storica sede dell’editore Mondadori a Segrate, allusa in una forma più aspra dal torinese Palazzo FATA. In essi, il volume a parallelepipedo che ospita gli interni (integralmente coperto da finestre scure) è dissimulato da colonnati continui e totali in altezza e le pareti si configurano come superfici ininterrotte, piane, in contrapposizione ai continui vuoti lasciati aperti dalle arcate che le circondano.
Il gioco è quindi tra pesante e leggero, tra pieno e vuoto, tra luce ed ombra, in un contrasto di due principi forse solo apparentemente opposti, ma che sono in realtà due facce della stessa medaglia. L’acqua stessa delle vasche in cui si riflettono le loro forme ardite sono una memoria che allude ai riflessi della Laguna Veneta nei giorni di sole, all’insegna di un’arte che è sì innovare, proporre, esprimersi, ma che non può mai svincolarsi, proprio perché grande, dal dialogo con i grandi modelli della tradizione. Immediato è per Niemeyer il raffronto tra le colonne veneziane e le stoai attiche e ancora con quelle degli edifici più moderni. Non si farà, come suggerisce Niemeyer, «del nuovo ispirandosi all’antico», riproponendolo in forme stereotipate in una cieca adorazione, ma vivendo la necessità di metterglisi a confronto, anche a costo di dissacrarlo, e riconoscendo in questa dissacrazione ancora una volta la forza del suo valore.