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“La prima cosa bella”:
l’Amarcord di Virzì
tra Livorno e affetti

6 minuti di lettura

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via» scriveva Cesare Pavese. E questo la dice lunga sul rapporto di Paolo Virzì con la sua terra. Livorno, porta a mare della Toscana, amata e odiata dai suoi abitanti come una madre dal cui cordone vorremmo staccarci pur non riuscendo ad abbandonarla. Una madre, appunto, che da malata terminale resiste al male con tenacia e orgoglio, come una roccia smussata dal tempo.

Una similitudine, neanche troppo velata, che serve a mettere in luce la confusione dei legami affettivi, quelli di sangue e di terra che, inevitabilmente, si sovrappongono, rientrano dalla finestra se li si è fuggiti, scavano solchi profondi in un’anima soffocata dai fantasmi del passato. Abbandonare il luogo d’origine è come abbandonare la propria casa: ci si allontana con il corpo anche se una linea sottile – non si sa poi neanche di cosa – resta sempre lì, ancorata alle origini, porta socchiusa su un passato che è parte di sé.

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Bruno Michelucci (Valerio Mastandrea) ha abbandonato Livorno e vive a Milano, città che nella finzione cinematografica equivale alla Capitale del regista Virzì, lontano dai luoghi natii dall’inizio del suo volontario esilio romano. Il ritorno, in entrambi i casi, è un riavvicinamento alla Prima cosa bella; la madre, quella biologica, e la Madre terra d’origine, ventre accogliente seppur soffocante, radice affettiva e sentimentale impossibile da recidere.

Un incrocio di piani – quello narrativo e quello più sottilmente autobiografico – che nel film si succedono senza sosta, assumendo il volto – e la storia – di una madre che ha vissuto duramente e intensamente la propria vita e che per questo, forse, ha finito per diventare un peso ingombrante per i figli. Una madre, bella e invadente come una città che rischia di “divorare” i suoi ragazzi, li spinge alla fuga costringendoli, nonostante tutto, a portarla nel cuore.

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La vicenda di Bruno, di sua sorella Valeria (Claudia Pandolfi) e della madre Anna (Stefania Sandrelli anziana e Micaela Ramazzotti giovane) è metafora perfetta del rapporto sentimentale di Virzì con la propria terra, esempio intrigante dei conti ancora aperti con le sue radici. Costruito come una delle più classiche commedie all’italiana (impregnata però a ben vedere di richiami disparati, dalle fiabe nere di Terry Gilliam ai richiami scorsesiani di Alice non abita più qui), La prima cosa bella alterna sberle e carezze in un ritratto apparentemente scontato di quelle dinamiche familiari che costringono a fare i conti con la propria storia, anche se la si credeva chiusa da tempo, sepolta in un vaso di Pandora impossibile da scoperchiare.

Nel momento in cui Bruno è seduto fuori dalla porta dell’ospedale dove è ricoverata la madre, il passato e la memoria sgorgano come in un sogno intervallato dal presente, con la donna che ora riposa in una stanza asettica che veniva eletta Miss dello stabilimento più popolare di Livorno. Poi le botte del marito, le traversie, gli amori liberi di una madre sbandata che darebbe ogni cosa per il bene dei suoi figli. Il tempo scorre, porta con sé laceranti separazioni. Ma poi chiude il cerchio, rimettendo alla fine ogni tassello al suo posto.

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E anche il dolore che si era fuggito prima, non vivendolo addosso, può presentarsi come una festa e una riconciliazione, una sorta di momento catartico necessario per chiudere gli spifferi delle porte spalancate sul passato. La prima cosa bella è l’amore che rischia di diventare spauracchio di tutta una vita. Lo si può rifuggere, negare, allontanare, ma è solo accettandolo con maturità che si potrà fare i conti con una parte di sé.

L’Amarcord livornese di Virzì è infatti il viaggio di ciascuno di noi, sbandati, ottenebrati, ma comunque spinti a riaprire un capitolo di storia che non volevamo chiudere. La felicità si racconta male, tanto più se ci si è costruiti da soli muri e paletti per volerla arginare. Tornare al passato significa mostrarsi fragili per acquistare finalmente forza, chiudere il cerchio e andare avanti. Riscoprendo le origini, amando se stessi.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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