L’empatia se n’è andata
L’empatia non esiste più ormai da molto tempo, siamo diventati una generazione di unipatici.
Al giorno d’oggi non è raro vedere reazioni di assoluta indifferenza di fronte ad eventi tragici quali la morte, la violenza ingiustificata, le richieste di aiuto.
Il gesto istintivo non è più quello di aiutare la persona in difficoltà o soccorrere il ragazzo a terra perché pestato da un branco di bestie, la reazione automatica di molti è quella di prendere il loro smartphone, ormai terzo arto superiore, e filmare la scena, senza una ben definita motivazione di fondo ma come un gesto meccanico.
Ne sono la prova i numerosi video riguardanti omicidi, barbare risse e altri eventi altrettanto drammatici che troviamo facilmente su qualunque social network, da youtube a Instagram.
È in questo panorama che molti si chiedono dove sia finita l’empatia, il dovere etico e morale che dovrebbe spingerci a intervenire nei confronti di chi ne ha bisogno. L’empatia se n’è andata, non c’è più, ma non è successo oggi.
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Mettersi nei panni dell’altro
L’empatia [dal greco en– (dentro) e –pathos (sofferenza)] si tratta della
«capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». In parole più semplici si tratta di mettersi nei panni dell’altro, sentendo in prima persona cosa egli prova.
Concentrandosi quindi sulle loro sensazioni però con «nessuna o scarsa partecipazione emotiva», vuol dire che deve essere ben chiaro che il vissuto dell’altro non è il nostro. È proprio qui che ci rendiamo conto che è già da tempo che l’empatia è scomparsa.
Aiutiamo chi ci è vicino e ci è simile, ma non chi non ha niente in comune con noi; giustifichiamo la violenza pensando «io non mi sarei cacciato in quella situazione», «però…», fino ad arrivare alla frase che ricorre ormai troppo spesso nella mente di molte persone «se l’è cercata», una semplice frase che ci permette di distaccare ed eliminare qualsiasi collegamento con la vittima, trovando una giustificazione all’ingiustizia subita e autorizzando il nostro disinteresse.
Perciò anche quei pochi che spesso intervengono, o si sentono colpiti da una vicenda, non lo fanno mossi dall’empatia bensì da un’altra capacità, meno conosciuta e difficile da riconoscere, ma diffusa e radicata in molti di noi: l’unipatia.
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La comprensione oltre l’immedesimazione
L’unipatia è uno stato d’animo fusionale, consiste nell’«unificazione o fusione affettiva del proprio io con quello di un altro soggetto»; nell’unipatia non solo l’emozione dell’altra persona viene ritenuta come propria, ma l’io dell’altro viene sia identificato che interiorizzato.
Proviamo paura, rabbia, tristezza, le stesse sensazioni dell’altro non perché comprendiamo il suo disagio ma perché siamo consapevoli che potrebbe capitare anche a noi oppure perché ci spaventa il pensiero di ritrovarsi nella stessa identica situazione.
Nell’unipatia, a differenza che nell’empatia, troviamo in noi lo stesso sentimento che scorre nell’altro.
Non è semplice distinguere tra le due, proprio per questo l’unipatia spesso viene scambiata per empatia; se dovessimo descrivere però in una singola parola queste diverse capacità nell’unipatia si tratta di immedesimarsi, nell’empatia di comprendere.
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Oltre i limiti del nostro sguardo
A questo punto diventa facile comprendere come mai sollevi più clamore la notizia di 129 persone morte durante un concerto in Francia che 300 morti in mezzo al Mediterraneo.
Se nel primo caso spaventa il fatto che è una situazione a noi familiare, in un ambiente conosciuto, chiunque poteva trovarsi a Parigi oppure lo stesso evento che è accaduto a Parigi poteva benissimo accadere a Roma, Milano, Firenze; nel secondo caso si tratta di una realtà a noi distante, dove è quasi impossibile immedesimarsi poiché noi non ci ritroveremmo mai soli su un gommone a 50 chilometri dalla costa più vicina.
Nell’idilliaco paesaggio narcisistico della nostra mente ci provoca sofferenza l’immedesimarci nel dolore di qualcuno a noi simile, ma non ci tange il grido proveniente da dove non si posa il nostro sguardo.
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Federico Giachini
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